La determinazione degli operatori sanitari ha rappresentato una pietra miliare nella lotta al Coronavirus. Si è sviluppato un “sentimento” di resilienza estremo, in grado di permettere al Servizio Sanitario Nazionale e a tutti gli operatori sanitari di generare una risposta determinata, forte ed efficace, anche mettendo a costo la loro vita. Allo stesso tempo, però, abbiamo assistito a situazioni antitetiche che, in molti casi, hanno obbligato gli operatori sanitari a dover prendere delle decisioni rapide e, talvolta, estreme: si pensi al caso di un infermiere di un’ambulanza che rifiuti di intervenire su un paziente con sospetto COVID-19 per assenza di dispositivi di protezione individuale.
In relazione a tale caso specifico potrebbero essere immaginate diverse contestazioni di ipotesi di reato. Tuttavia, risulta doveroso approfondire in maniera dettagliata, seppur sintetica, alcuni aspetti riguardanti anche le responsabilità civili e la sicurezza sul lavoro .
Si tratta di aspetti che, in questo caso, sarebbero strettamente connessi all’eventualità dell’insorgenza di responsabilità penali a carico dei singoli operatori sanitari e/o delle strutture sanitarie.
L’analisi dei diversi aspetti (penali, civili, sicurezza sui luoghi di lavoro) può essere utile agli esercenti una professione sanitaria al fine di renderli edotti su dinamiche, anche nuove, che con frequenza stanno ricorrendo in questa fase assistenzial-emergenziale.
Rispondiamo dunque al quesito riguardante il caso dell’infermiere di un’ambulanza che si rifiuta di intervenire su un paziente con sospetto COVID-19 , per assenza di dispositivi di protezione individuale .
Responsabilità penali
La diffusione del Covid-19 si sta presentando come una situazione di eccezionale gravità sia sotto il profilo sanitario sia dal punto di vista giuridico, creando difficoltà di vario tipo, anche a livello di “interpretazione” delle condotte dei singoli.
Ciò non consente una facile collocazione e tipizzazione dei comportamenti quali specifiche ipotesi delittuose, cioè quali condotte dalle quali potrebbero discendere responsabilità (talvolta anche penali). Tuttavia, in considerazione della novità e dell’eccezionalità dell’emergenza, l’individuazione di possibili responsabilità deve essere contestualizzata nell’ambito della complessa dinamica che chiama in causa i singoli e le strutture sanitarie, anche alla luce della sicurezza organizzativa, delle linee guida e dei protocolli.
È noto a tutti che le strutture sanitarie, in molti casi, hanno rappresentato il focolaio dal quale il virus si è diffuso o, in altri casi, si sono trasformate successivamente in luoghi di contagio. Non è in discussione che, in numerosissimi casi, le strutture sanitarie e i loro operatori siano diventati bersaglio facile del Covid-19 , a causa della mancata, insufficiente o tardiva fornitura di Dispositivi di Protezione Individuale, così trasformandosi in incubatori del contagio.
In altri casi, probabilmente, è mancata un’adeguata compliance interna idonea a garantire livelli sufficienti di organizzazione e sicurezza dei luoghi di lavoro.
La carenza di DPI e le falle nell’organizzazione non sono certamente prive di possibili risvolti penali: il riferimento è alla violazione del combinato disposto dell’art. 55, co. 5, lett. c) e d) in relazione alle previsioni dell’art. 18, co. 1, lett. d) ed f) del TUSL che prevede specifiche sanzioni penali per i datori di lavoro.
Non è un caso che, in molti casi, la magistratura abbia acceso i riflettori sul modo in cui le strutture sanitarie hanno gestito l’emergenza attraverso l’apertura di indagini in cui, in relazione a molte strutture private, si ipotizza anche la responsabilità degli enti in base al decreto 231/2001 : la tutela della salute è una prerogativa degli organi di gestione e di controllo delle imprese, così come dell’organismo di vigilanza.
Il contagio degli operatori richiama altresì la contestazione degli artt. 589 e 590 cod. pen., anche se potrebbero sorgere difficoltà nell’accertamento della relazione causale poiché l’accusa dovrebbe essere in grado di dimostrare che il contagio è avvenuto nell’ambiente ospedaliero.
Vengono inoltre in rilievo altre possibili ipotesi accusatorie: si pensi alla possibile contestazione della diffusione di epidemia colposa , anche in concorso (art. 438-452 c.p.).
Quanto alle possibili condotte penalmente rilevanti dell’operatore sanitario , in diversi casi, anche alla luce della giurisprudenza, si è assistito alla contestazione delle ipotesi delittuose di rifiuto in atti d’ufficio , abbandono di persone incapaci , omissione di soccorso , interruzione di pubblico servizio (artt. 328, 591, 593, 340 c.p.), nei casi in cui l’operatore chiamato ad intervenire non lo abbia fatto.
Venendo al caso specifico dell’infermiere che rifiuti di intervenire nei confronti di un sospetto Covid-19 perché non dotato di DPI , le fattispecie di reato maggiormente aderenti sarebbero quelle di Rifiuto di atti d’ufficio ex art. 328 c.p.1 e di Interruzione di pubblico servizi o di cui all’art. 340 c.p.2
Sul reato di rifiuto in atti d’ufficio la giurisprudenza, anche recente, in casi analoghi, ha avuto modo di chiarire che “ai fini della configurabilità dell'elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d'ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento "contra ius", senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata avesse correttamente escluso la configurabilità del reato nei confronti di due infermieri addetti alla centrale operativa 118 , i quali pur non intervenuti tempestivamente a prestare soccorso, avevano rispettato i protocolli medici indicativi della patologia in relazione alla sintomatologia riferita telefonicamente dal paziente. Cass. Pen. sez. VI, 22/07/2015, n.36674).
Quanto alla possibile interruzione di pubblico servizio , secondo autorevole dottrina, sia la moltiplicazione delle assenze di lavoro, sia l’enorme diffusione del virus manifestatasi tra i sanitari , sia la giustificata astensione ad erogare le prestazioni assistenziali e lavorative a causa dell’inadempimento del datore di lavoro in relazione agli obblighi di garantire adeguati livelli di sicurezza, comporterebbero la legittimità della reazione dell’operatore sanitario , al quale non potrebbe essere contestata l’ipotesi di interruzione di pubblico servizio (art. 340 c.p.).
- Avv. Giovanni Palmieri
Aspetti civilistici
Entrando quindi nell’analisi di eventuali ambiti di responsabilità in materia civile, in merito al quesito in oggetto si potrebbe verificare un duplice rilievo: nei confronti della persona bisognosa di assistenza da un lato, verso il datore di lavoro dall’altro.
Rapporto con l’utenza
Vige in capo agli esercenti delle professioni sanitarie l’obbligo di garanzia in ossequio al concorso tra i doveri di solidarietà e di tutela della salute sanciti dalla Costituzione3 . Quindi una tale omissione, riguardante una prestazione sanitaria indispensabile, potrebbe riconnettersi eziologicamente ad eventuali danni sul paziente derivanti dal ritardato (o omesso) soccorso: in tal senso il professionista potrebbe esporsi ad una richiesta risarcitoria per responsabilità extracontrattuale 4 .
Rapporto con il datore di lavoro
Partendo dal presupposto che la figura datoriale è chiamata all’esatto adempimento e al contempo è ritenuta responsabile dell’operato degli “ausiliari” di cui si avvale per compiere la prestazione5 , va specificato che la condotta del professionista sanitario (durante lo svolgimento di una prestazione lavorativa) si interfaccia sia con profili giuslavoristici che di sicurezza nei luoghi di lavoro6 , tra loro interdipendenti.
Riguardo al primo aspetto si identifica un generale obbligo di subordinazione7 (che si specifica nei doveri di diligenza, obbedienza e fedeltà8 nei confronti del datore di lavoro); mentre dal secondo discende il dovere da parte del lavoratore di proteggere la propria e l’altrui salute nel rispetto della formazione e delle istruzioni ricevute9 .
È solo il caso di precisare che un ulteriore dovere grava sul professionista, laddove operante in strutture sanitarie: di concorrere alla prevenzione e gestione del rischio, al preciso scopo di garantire il diritto alla sicurezza delle cure 10 .
La fattispecie concreta in cui un operatore della sanità rifiutasse di esercitare l’azione di soccorso in favore di un soggetto sospetto Covid in quanto sprovvisto dei dovuti DPI risulta caratterizzata da un conflitto di beni giuridici costituzionalmente garantiti : per il lavoratore diritto alla retribuzione proporzionata11 , all’ integrità fisica e ad un ambiente salubre contrapposti al diritto a ricevere assistenza sanitaria e cure12 del paziente.
Quindi, in conclusione :
Nei confronti del datore di lavoro (inadempiente rispetto ai rispettivi doveri di tutela dei propri dipendenti13 ) il professionista sanitario risulterebbe giustificato 14 e in tal senso recentemente la Suprema Corte ha (ri)confermato in capo al dipendente la possibilità, anche in sede stragiudiziale, di eccepire l’inadempimento del datore agli obblighi di sicurezza, operando in autotutela, all’uopo, l’astensione dalla prestazione rischiosa15 ; nell’eventuale verifica processuale il giudice dovrebbe accertare la proporzionalità della condotta verificandone il presupposto di buona fede oggettiva16 e in caso positivo il lavoratore vedrebbe conservato il diritto alla retribuzione nonostante la sospensione “unilaterale” dell’esecuzione del rapporto contrattuale17
Nei confronti dell’utenza : nella remota ipotesi che il soggetto rispetto al quale si è verificata l’omissione della prestazione di soccorso avanzasse una richiesta risarcitoria diretta nei confronti del professionista, si potrebbe ritenere applicabile (laddove non venisse ritenuto esclusivamente riconducibile al datore di lavoro il nesso causale) la scusante dello stato di necessità 18 e quindi l’eventuale corresponsione di un equo indennizzo in luogo del risarcimento19
- Dott. Giuseppe Sasso
Sicurezza del lavoro
Il Testo Unico 81 del 2008 (documento fondamentale in tema di salute e sicurezza sul lavoro) prevede obblighi stringenti sia per il datore di lavoro che per il dipendente. Nel dettaglio:
Art. 71 – obblighi del datore di lavoro
Mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle Direttive comunitarie, idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi
Secondo comma: il datore di lavoro, all’atto della scelta delle attrezzature di lavoro, prende in considerazione le condizioni e le caratteristiche specifiche del lavoro da svolgere e, soprattutto, i rischi presenti nell’ambiente di lavoro. Al riguardo, basti ricordare che uno dei primissimi provvedimenti che i datori di lavoro avrebbero dovuto adottare riguardava l’aggiornamento del documento di valutazione del rischio, proprio in considerazione dell’ emergenza COVID-19
Sesto comma: il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché il posto di lavoro e la posizione dei lavoratori durante l’uso delle attrezzature presentino requisiti di sicurezza[…]
Art. 77 – obblighi del datore di lavoro
Effettuare l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi
Individuare le caratteristiche dei DPI necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi, tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI
Art. 78 – obblighi dei lavoratori
Comma 5: i lavoratori segnalano immediatamente al datore di lavoro o al dirigente o al preposto qualsiasi difetto o inconveniente da essi rilevato nei DPI messi a loro disposizione
Dopo aver scandagliato tutte le sfaccettature riguardanti il quesito posto all’inizio dell’articolo risulta evidente la complessità del caso, non certamente unica nel suo genere (almeno in questi ultimi due mesi).
Per cui, alla luce di quanto esposto, il consiglio da poter suggerire all’operatore sanitario che si rifiuta di eseguire una attività assistenziale, mancando i DPI adeguati, è quello di motivare con una lettera tale rifiuto , indirizzandola al responsabile del servizio prevenzione e protezione, per conoscenza al proprio coordinatore infermieristico o preposto e segnalando il caso anche al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza .
- Dott. Muzio Stornelli
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