Scorgo salute tutt'attorno. Ce l'ho negli occhi, per professione
Dicono che il sistema sanitario nazionale stia andando a pezzi. Nonostante tutto, comunque sia, i sanitari sono sempre al loro posto.
La colgo nel clima torrido. In quel signore che sfreccia tra le auto con il monopattino, accidenti non porta il casco da ciclista. Nell'immigrato che dorme sulla panchina, forse ha passato la notte all'aperto.
Deve essersi concesso una tregua anche il vecchio indiano che, accantucciato sul ponte di ingresso al riparo nell'ombra sottile che gli fa il palo di ferro su cui poggia la schiena, chiede l'elemosina porgendo un bicchiere di plastica senza disturbare nessuno con lamenti e preghiere. Fa soltanto un gesto silenzioso verso la carità di qualcuno di buon cuore.
Forse fa troppo caldo anche per lui oggi, anche se è abituato alle temperature elevate del suo Paese, il termometro davanti alle Onoranze Funebri segna 38° C alle dieci del mattino. Il bar dell'ingresso è chiuso e sono silenziosi anche i distributori del caffè lungo il percorso che mi porta in Pronto soccorso, passando per il retro.
Sto cercando un familiare portato qui alle prime ore del giorno, ma non ho voglia di fare la fila al triage per chiedere informazioni. Mi arrangio, me lo cerco passando per un'altra via, so come muovermi, tanto qui sono di casa. Nessuno si attarda per una pausa negli angoli del ristoro vicino agli ascensori che portano ai piani alti. Ogni volta mi torna in mente il racconto Sette Piani di Dino Buzzati .
Non si sentono i centesimi cadere, il resto delle monetine che cadono, il tonfo degli snack, le chiacchiere dei colleghi nei giorni feriali. Nessuno mi chiede indicazioni, gli infermieri la gente li riconosce a vista anche solo con un badge al collo, talvolta anche se vestono panni civili.
È quasi vuoto anche il Pronto soccorso. Sembra che non ci siano accessi impropri , anche se da qui non vedo la sala d’attesa principale e il tabellone dei codici in trattamento.
Ho scoperto da poco che c'è un’app apposita, specifica per ogni Pronto soccorso, per rendersi conto in tempo reale e da remoto della situazione degli afflussi. Una donna, con la gamba immobilizzata in una stecco benda, aspetta il suo turno davanti all'ambulatorio dell'ortopedico. Chissà se il chirurgo è in sala ad aggiustare qualche osso frantumato nella notte di festa. La signora dovrà purtroppo aspettare ancora a lungo, in tal caso. Nei giorni festivi lo specialista è uno soltanto.
Mi sembra ancora di essere lì, mi rivedo a preparare il catino dell'acqua calda al punto giusto e bagnare le bende di polvere di gesso. Mi piaceva arrotolare, fasciare, modellare gli arti. Sembrava di essere un vasaio, creando un involucro protettivo così da dare il tempo all'arto di guarire nella posizione migliore in cui l'ortopedico lo aveva fissato dopo aver ridotto la frattura.
Passo davanti alla sala rossa . Gli spazi sono stati ristrutturati, sono più belli e funzionali. Colorati. E sono inaccessibili, si entra soltanto con un codice sulla parete, è rimasto lo stesso di allora. Mi viene voglia di comporre il numero, ma non sono più nell'organico del reparto. Sto al mio posto, come non fossi un'infermiera.
Dieci anni fa c'erano solo tre sale d'emergenza, se i casi urgenti erano tanti ed arrivavano insieme accoglievamo più lettighe in ciascuna. Ci si stava stretti, ci si stringeva per il bene dei pazienti e si lavorava con ritmi frenetici, saltando da una barella all'altra. Ora l'emergenza accoglie 12 posti letto, moderna e con strumenti nuovi. Sembra di essere in qualche ospedale americano, come si vede sulle serie di Netflix. Ed è meravigliosa per chi fa l'infermiere di area critica . C'è tanto posto e mi sembra ci sia qualche personale in più. C'è sempre un bel movimento lì dentro. Che mette i brividi. Non di paura, ma di adrenalina. Per le vite salvate, o per le energie che si spendono per farlo.
Passo davanti agli ambulatori dell'area verde e alle sale di attesa, sono quasi vuote e le persone non stanno troppo male. Nessuna ferita lacero contusa, poche flebo appese, qualche sedia a rotelle. Trovo il mio familiare, gli faccio un rapido triage a colpo d'occhio sulla porta. Non posso farne a meno, mi viene spontaneo. Qualche paziente se ne accorge. Mi rassereno, tra poco mi riporto a casa il mio caro.
Dovrò aspettare senz'altro l'esito degli ultimi esami. Il suo codice giallo/arancione è diventato un verde. Mi guardo attorno. A Ferragosto , come nelle domeniche e nelle feste comandate, le persone stanno bene fino ad una certa ora. I Pronto soccorso cominciano generalmente ad affollarsi nell'ora del rientro a casa, con i primi incidenti sulle strade e i malesseri dopo le libagioni.
È sempre stato così, l'unica cosa che non cambia mai nei turni di generazioni di infermieri che si sono avvicendati in questo reparto che ho tanto amato. Sento ancora le voci degli infermieri di allora, il telefono del triage che squilla, il primario che coordina. Ricordo le pratiche che si accumulavano sul bancone e i nostri passi veloci.
Mi è rimasto impresso il pugno precordiale del collega su un uomo che avevo trascinato a peso sul lettino, a pochi passi, dopo che mi era crollato davanti a peso morto colpito da un arresto. In una miscellanea di ricordi mi tornano a mente gli ictus, gli edemi, le embolie polmonari , gli infarti del miocardio, i femori rotti, gli scompensi psicotici, le addominalgie e le lesioni traumatiche che ho trattato.
La siringa riempita di propofol per le cardioversioni elettriche con il cardiologo e l'anestesista, il carrello sterile per i drenaggi toracici, i cateteri venosi centrali e quelli vescicali. Le suture. La centrale del 118 che avvisa che sta arrivando un rosso respiratorio. Arriva anche un neurologico. È libera la prima sala!
Il tecnico della radiologia che arriva per un torace urgente. La polizia che viene chiamata per sedare gli animi e le proteste violente. Il sangue sul pavimento, con il suo odore dolciastro. Ecco, mi ricompare l'immagine di Erica, che non siamo riusciti a salvare . Le ferite erano troppo gravi, non c'è niente da fare se si viene sbalzati fuori passando dal finestrino e cadendo centinaia di metri più in là. Avevamo la stessa età ed era la prima volta per me.
L'odore di urina nei pannoloni. Di vecchio, di morte. Di sudore. Il ritmo di un cuore in fibrillazione atriale. Le corse in emodinamica con il multiparametro tra le gambe dello sfortunato con il cuore malandato e il pallone Ambu sopra il lenzuolo pronto all'occorrenza.
Sbarellare. Ritornare in Emergenza. Ricominciare
Ed ora che sono in un'altra unità e faccio – infermieristicamente - altro, mi sembra incredibile di averne fatto parte per dieci anni e di esserne stata capace. E di essere stata qui, felice. Ripeto spesso che sono stati gli anni più intensi e veri della mia vita, mi capita di dirlo talvolta anche agli studenti in infermieristica che mi raccontano il loro percorso di tirocinio .
Qui avevo trovato l'ambiente che faceva per me, adatto per quella che ero allora. Nelle dinamiche di lavoro e nelle relazioni con i colleghi avevo trovato la mia dimensione professionale. Non ho più vissuto niente di paragonabile, anche se forse gli anni che riteniamo più belli sono quelli più giovani e vengono idealizzati quando finiscono. Ci restano soltanto le memorie buone, positive.
Dato che sono qui, nell'attesa di riportarmi a casa il mio vecchio, decido di scendere nei sotterranei per recuperare le divise al distributore automatico della lavanderia. Mi servono per il turno di domani, che inizio presto. È Ferragosto anche qui sotto, pertanto per accedervi devo prendere l'ascensore usato dalla cucina per portare i carrelli dei pasti nei reparti. Mi ricordo così che tra qualche giorno finisce pure il servizio del pranzo quotidiano nel cestino da asporto, là fuori dicono che la pandemia è finita – anche se l'epidemia circola con un Rt sopra l'1 – così che l'attuale quadro epidemiologico consente a tutti di riprendere l'abituale ritrovo conviviale in mensa aziendale. Decido che tornerò a mangiare a casa, finito il turno.
La divisa è piena di pieghe , non viene certamente stirata a mano con cura sull'asse ma compressa senza tanti riguardi. I pantaloni sono troppo corti, si vedono le caviglie. L'elastico è troppo stretto o troppo largo, talvolta li perdo. La casacca è troppo ampia. Eppure, è una S. Il cotone si allarga o si restringe. Le misure non sono su misura, del resto siamo tutti fatti diversi e non posso pretendere che aderisca perfettamente alle fattezze del mio corpo. Ingrasso, dimagrisco, non resto mai la stessa. Che stress.
Anche se non calza mai a pennello è pur sempre una divisa per starci comodi e lavorare bene . E poi l'amo, anche se è tutta spiegazzata. Torno in spogliatoio, sopra di me soltanto tubi di rame, solai di cemento e condutture di acciaio lucente. E sei piani di gente. Sento scrosci di acqua di scarico, rumori abituali come quelli del condominio di casa dopo vent’anni che passo di qua. In fondo, a destra, ancora a destra, al bunker della radioterapia e della cyberknife giro a sinistra, sempre dritto verso gli spogliatoi del lotto dell'area materno infantile.
Ci arriverei ad occhi chiusi. Sui muri ci sono ancora scritti con il pennarello nero i nomi dei reparti Covid, per non perdersi muovendosi di sotto con i letti durante i trasporti da un reparto all'altro quando la logistica era stata stravolta. Mi chiedo se soltanto i muri del piano interrato ricordano quello che hanno visto negli ultimi tre anni, salita quella scala in fondo per timbrare il cartellino anche gli operatori sanitari sembrano aver cancellato ciò che hanno drammaticamente vissuto, una volta che riemergono tra i vivi. Che strani che sono, gli esseri umani. Che senso ha imparare per poi dimenticare? Di sopra la vita sembra tornata alla normalità ma le mascherine e i tamponi ci dovrebbero ricordare che non è ancora finita.
Mentre aspetto le dimissioni e mi soffermo distrattamente sui volti delle altre persone, ciascuno con il suo male addosso, curabile o incurabile non so, mi tornano alla mente le parole della scrittrice Michela Murgia , scomparsa qualche giorno fa per un cancro al IV stadio. In un'intervista sul suo male che non chiamava maledetto, diceva che siamo organismi complessi e che questa complessità, che ci distingue dagli organismi unicellulari, ci permette di fare ed imparare grandi cose ma ci rende anche soggetti agli errori del corpo che generano altre cose che poi chiamiamo malattie.
C'è da chiedersi allora, diceva, se si preferisca non essere in grado di fare queste grandi e belle cose per non ammalarsi oppure se si preferisca che questa nostra complessità abbia dei lati oscuri così come ne ha di luminosi. Questa tridimensionalità è la natura umana, pertanto lei preferiva prendere tutto. Luci ed ombre. E anche noi ci prendiamo tutto qui dentro in ospedale, la bellezza della professione e la bruttezza della malattia. Non si odia la malattia, è l'altra metà ombrosa. Si impara a conoscerla dopo averla diagnosticata, la si tratta, si scende a patti con essa e con il tempo che ci concede per la cura.
Sento avvicinarsi sirene. È mezzogiorno. Cominciano ad arrivare le prime ambulanze del giorno di mezza estate. Probabilmente non mancherà neanche oggi il volo dell'elisoccorso che porterà qui qualcuno che si è fatto male in qualche escursione incauta sulle vicine montagne. Ci sono tragedie ogni giorno, purtroppo. Le persone perdono la vita per qualcosa che non capisco o non accetto.
Del resto, siamo fatti di salute, non c'è niente nella nostra vita che non riguardi il nostro benessere e che nelle nostre attività, anche di svago, non ci porti al rischio di imbatterci in un malessere. Perché siamo fatti di carne e ossa, muscoli e sangue ma anche di poco cervello, di fretta e scarso buon senso, di imprudenza, di non rispetto dei propri limiti e delle regole. Di voglia di vivere e di esagerare.
Ci si dimentica dei Pronto soccorso finché non se ne ha bisogno. Ci si dimentica delle persone che ci lavorano senza interruzione di servizio, per coprire le 24 ore di ogni giorno così da essere sempre a disposizione dei cittadini. Sono indistinti lavoratori tutti uguali ed anonimi.
Soltanto i colori della divisa - verde, blu, grigia, rossa, nera e gialla – li distingue per quello che fanno secondo le loro competenze e responsabilità. Mentre mi allontano vedo scendere dall'autolettiga di una Croce di volontari un uomo ben immobilizzato sulla tavola spinale ed il collare cervicale, verosimilmente un trauma della strada.
Sono valorosi questi giovani volontari, fanno del loro tempo libero un servizio alla salute della comunità. Pur non essendo dei soccorritori professionisti, hanno quel giusto piglio responsabile e quel senso del dovere civico verso gli altri che serve per dare una grande mano ai sanitari che lo fanno di mestiere. L'articolo 32 della costituzione è davanti gli occhi di tutti, in alcune persone il principio mette radici. Dicono che il sistema sanitario nazionale stia andando a pezzi.
Nonostante tutto, comunque sia, i sanitari sono sempre al loro posto. Di più, davvero, non possono fare. Ne sono orgogliosa e mi sento sicura quando so che in turno nella mia città ci sono i miei colleghi di un tempo. Esperti, capaci. Con loro si è in buone mani. Non si dimenticano coloro con cui si è cresciuti. Ormai sono rimasti in pochi ma ci sono e hanno intenzione di restarci. E di formare altri giovani infermieri, come hanno formato me.
Vedo un'infermiera del triage che esce a soccorrere una persona appena giunta in auto, accorre anche un volontario portando una sedia.
Ma come, non sono io quella giovane infermiera?
C'è un gran vento, l'aria è mossa dalle pale dell'elicottero. Sta atterrando sulla pista. L'ambulanza è già sul posto. Sono certa che tutti in Pronto soccorso della Rianimazione o in Sala Operatoria sono pronti. Pur provando nostalgia, torno al mio Ferragosto tranquillo, libero dal lavoro e dalla malattia.
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