Curare la solitudine: viaggio del paziente tra ricerca e poesia
L’uomo malato è solo in mezzo ad altri uomini soli, è uno in mezzo a tanti equilibri esistenti mentre il suo viene disintegrato di giorno in giorno.
La conosciamo bene quella sensazione fine, silenziosa e così dannatamente fastidiosa, crudele, infame. Quel dolore estremo che scatena le fiamme dell’inferno ed entra in punta di piedi nello spirito, senza biglietto, senza permesso, senza rispetto. Lo sappiamo, cosa significa essere soli e non avere nessuno con cui condividere il silenzio.
Abitare la solitudine è prigione di un destino traditore, è catene di una follia che non trova spazio tra chi non comprende, tra chi non vede, non sente… non ascolta. Perché come ci insegna Pirandello possiamo essere uno, nessuno, centomila: l’uomo solo, paziente, è centomila respiri di dolore, centomila maschere di sorrisi falsi, è uno solo, solo in mezzo a un mondo che non comprende perché l’uomo solo sa di essere nessuno in mezzo a centomila altre maschere di solitudini nascoste.
Ma chi è l’uomo malato?
Cos’è quella rottura orribile che separa la speranza dalla certezza? Salute e malattia sono lo specchio della dicotomia dell’esistenza umana, opposti ai margini del bene e del male, bianco e nero, vita e morte.
L’uomo malato è colui che vive la sospensione del tempo, la negatività del destino e l’impossibilità dei progetti. È colui che vede la propria quotidianità spezzata dalla crudeltà del fato, maligno e infame per mestiere. Quando si trova davanti alla diagnosi di malattia le tenebre della notte offuscano la vista della sopravvivenza, la finitezza della vita diventa possibilità vicina e non più solo qualcosa di detto o raccontato da altri.
Ci si rende improvvisamente conto della propria transitorietà sulla terra e di quell’idea comune che questa vita sia solo un passaggio. Tutto sembra improvvisamente scandito da scadenze, quel tutto che fino a poco tempo prima era possibile e necessario. Tutto diventa niente, futile… ci si perde tra gli angoli remoti della tristezza, dell’ingenuità del pensiero che tenta di rifugiarsi nella negazione della diagnosi.
Il mondo assume un’altra connotazione, si diventa qualcun altro, qualcuno che non si conosce. L’uomo malato è estraneo di sé stesso, è straniero del suo stesso mondo, disconosce la sua nuova condizione e la pone ai margini della realtà. Anche in mezzo ad altri uomini malati, anche nel proprio contesto sociale di appartenenza l’uomo malato si sente solo : è sua la malattia, è sua la storia, sono sue le emozioni e le sensazioni sono irripetibili e inimitabili.
Solitudine è uragano di cui si veste la malattia, è cancro che investe ogni cellula della corporeità, è mostro cattivo che distrugge favole e aspettative.
La malattia rifugia le certezze di una vita intera e genera l’impressione della speranza. Sta a noi professionisti sanitari rendere le speranze possibili e ancorarle alle certezze della vita anche se malattia è l’eccellenza dell’incertezza assoluta del tempo della finitezza.
L’uomo malato è esistenza reale, la depressione non è propria della malattia ma è la conseguenza della solitudine derivante dalla mancanza di salute. Solitudine è malattia anche di fronte a diagnosi semplici, è emarginazione centrale che soffoca l’umana vita, deprime l’esistenza essenziale dell’abitare in comunione con gli altri, è sofferenza terribile che piega lo spirito.
L’uomo malato non è evidenza di malattia ma è molto di più: è quella fragilità della vita che abita la solitudine della condizione nella perdita dell’omeostasi delle certezze, dell’equilibrio raggiunto delle emozioni; è isolamento dell’anima in un urlo verso cui troppo spesso si rimane ciechi e sordi.
Ma proprio l’uomo, stazione definitiva che guida il mondo, attraverso il sistema Umanità ritrova il mezzo e il fine ultimo dell’intera presenza soggettiva che non può essere analizzata e raccontata da sola. La storia di un singolo uomo è storia del mondo, un uomo solo è affare di tutta la Terra, di tutti gli altri uomini, perché il soggetto non esiste senza i propri legami.
In quella causalità circolare il dolore di un singolo uomo è dolore delle proprie assenti relazioni, è sofferenza universale, è ricerca delle armi giuste per spezzare la terribilità dell’abbandono.
Malattia è piaga, è senso di morte, è perdita, è confusione
L’uomo malato è solo in mezzo ad altri uomini soli, è uno in mezzo a tanti equilibri esistenti mentre il suo viene disintegrato di giorno in giorno.
La nostra società attribuisce alla malattia solo significati negativi : colpa, punizione, emarginazione, nullità, estremo. Un uomo malato, che già vive nel buio della sua condizione, spento anche dalla società in un cui abita è un uomo che diventa fragile, oceano di errori, si sente macchiato da sé stesso e nel buio dell’esistenza la vita è solo un abbaglio lontano.
E in una realtà dove il corpo è cosa, il paziente, uomo malato, è riconosciuto con il numero del letto che occupa, con la malattia che diventa unica rappresentazione del suo essere concretizzando quella che è la disumanizzazione delle cure .
Nelle nostre corsie d’ospedale c’è la concretizzazione di tutto quello che avviene anche al di fuori delle mura del dolore: il corpo è cosa, oggetto, è numero. La malattia è il buio della vita e in corsia si genera il buio comunicativo. Il paziente è la sua malattia e non c’è altra storia da raccontare.
La stessa vera condizione viene nascosta, tenuta segreta perché alla fine ciò che accumuna tutti gli uomini, al di là della propria posizione sociale, è la paura. Dire la verità, entrare in empatia con l’essere umano fa paura, partecipare ai dubbi, ai timori dell’altro è impossibile perché l’uomo è fragile e nel dolore sa di non riuscire a trovare risposte.
Ma solo partecipando agli stati d’animo dell’altro si può creare quel passaggio da Disease a Illness tanto studiato, analizzato e atteso. La letteratura scientifica sostiene fortemente il concetto, testato e dimostrato, che le emozioni negative incidono sull’organismo dell’individuo e in particolare sul sistema immunitario, abbassando quelle difese necessarie nel complesso sistema malattia.
L’emotività è spinta verso il vivere, pulsione di vita, motivazione a ricrearsi e lasciarsi andare non alla tempesta del destino ma alle possibilità della speranza. Emozionarsi è anche capacità di amare sé stessi e gli altri, aiutare i propri valori ad esprimersi nella moralità del vortice sicuro dell’emotività, della comunione tra mente e corpo l’espressione della corporeità ristabilisce il legame con il sentimento della propria identità che fa nascere quell’emozione che scaturisce nell’incontro con se stessi, con il proprio Io che è radice certa di esistenza nell’Universo.
Permette di ricordare di essere presenti nel mondo, essere ancora parte integrante della vita che non va perduta e di ristabilire quel legame umano che rinasce nelle mani unite dell’altro.
Questa è la vera cura, questo significa davvero prendersi cura : le emozioni non sono distacco, non sono pena né errore… sono possibilità nel pieno dell’impossibilità della guarigione, sono opportunità di vita in un sopravvivere che torna a vivere, armi vincenti dei professionisti della cura che offrono il vento della serenità spazzando via la tempesta dell’inquietudine propria della malattia.
La solitudine nei processi di cura è spesso necessaria se pensiamo che l’isolamento di un paziente affetto da una malattia infettiva è condizione unica per non trasmettere la malattia ad altri. Ma noi operatori sanitari, che ogni giorno della nostra vita tocchiamo con mano e respiriamo con anima e corpo la sofferenza dei nostri pazienti, ci siamo mai chiesti davvero cosa prova quell’uomo che si vede privato della propria vita, del proprio equilibrio stabile quando rimane solo, e questo occupa gran parte del tempo in ospedale, quando non c’è nessuno intorno a lui se non macchinari, tubi, mura e ancora mura?
Il paziente è uomo, è spazio vivente dove il tempo è nemico, è per professione traditore… è in quelle stanze dove in un minuto i secondi sono cento e mille ancora, dove tutto tace che la malattia è l’unica a parlare.
La comunicazione non deve essere esclusiva della malattia
Essa può essere messa ai margini senza mai emarginare l’uomo che è essenza necessaria per la vita. Il paziente non deve trovare armi per sopravvivere, ma motivi per vivere . Nella nostra esistenza professionale ciò che sarebbe in grado di regalare spazi di esistenza umana e non esclusivamente malata è la creatività, quella che genera vita e allontana dalla solitudine anche quando l’isolamento diviene unica strategia sanitaria.
L’arma vincente della creatività, parte integrante dell’educazione edella formazione sanitaria, sono le Medical Humanities . Così tracciamo la mappa per la meraviglia perché far respirare il bello è alito di vita, bellezza nel dolore, nelle tenebre di morte, terrore, terribilità del buio.
Musica, narrazione, arte visiva, cinema sono “effetto adrenalina”, sono amore laddove la speranza può non essere più solo abbaglio lontano ma possibilità concreta. È attraverso il viaggio tra le pagine della scienza che riscopriamo il valore fondamentale della nostra conoscenza in quei luoghi della mente che ci legano alla morale dell’anima per quella pratica dove ricerca, etica e consapevolezza realizzano il più bello dei principi dell’infermieristica: la centralità dell’essere Umano .
La malattia è anche narrazione di un vissuto che va oltre tutto ciò che esami di laboratorio e referti possono dirci. Si tratta di un vissuto profondo, sconosciuto agli occhi dei professionisti ma conoscibile, esplorabile, esistenza concreta che attende solo di essere scoperta e accolta. Aprire le braccia, con sentimento ed emozioni, al vissuto dell’uomo malato significa concedersi alla bellezza terapeutica delle storie nella piena realizzazione dell’umanizzazione delle cure.
Dove c’è una storia da raccontare, c’è il significato terapeutico della parola e il senso della cura umana. Il vissuto è l’esperienza e nel luogo della malattia è tutto quello che sta dietro sintomi, segni, diagnosi e atti tecnici; è l’insieme di parole che esprimono ciò che l’uomo malato sta vivendo e ciò a cui si deve dare valore.
L’essenza umana è alla base di ogni uomo, prima della malattia c’è sempre un uomo da raccontare, un libro da aprire in una storia infinita da condividere. La narrazione è luogo di relazione, è alito di vita nei corridoi della sofferenza, è tempo di cura, tempo di vita.
Ma se i libri fossero persone? E se i luoghi di cura diventassero biblioteche viventi? Se in esse i pazienti diventassero libri da raccontare? Ognuno di noi è una storia da raccontare, siamo essenze narrative nel grande libro della vita, siamo pagine infinite di narrazioni avvincenti, uniche, indefinibili e irripetibili.
I luoghi di cura diventano spazi viventi, si vive nelle storie degli altri e si impara a riscoprirsi nella propria. Incontrarsi con gli altri e ascoltare le loro storie insegna a interrompere il passo dei pregiudizi e degli stereotipi perché ci si riscopre nell’apertura e spontaneità dell’altro, ci si rende conto che si è libri della biblioteca del mondo e che ogni storia può essere raccontata.
Nell’incontro con le storie degli altri ci si incontra con il proprio dolore, con la propria esperienza di malattia e si scopre che non si è soli. Tutto questo nel segno evidente del bisogno estremo dell’uomo di aggrapparsi all’altro, ritrovare la bellezza nella mano e nello sguardo di chi sa comprendere.
Sono quegli incontri che fanno bene all’anima, alla mente, al corpo, sono la bellezza che annulla lo spazio della solitudine e ritrova la luce della speranza. Come possiamo comprendere il nostro paziente se non abbiamo l’opportunità di ascoltarlo veramente? Come può lui comprendersi e riscoprirsi se non ha la possibilità di incontrarsi con sé stesso e con la bellezza di altre storie?
Questo è prendersi cura del nostro paziente, della sua storia
Il paziente necessita di ascolto, comprensione, apertura, di qualcuno in grado di dargli le risposte ai mille dubbi e ai milioni di domande sulla propria condizione di salute. Il cammino che compiono insieme paziente e operatori è un vero e proprio viaggio, un approccio che identifica tutte le tappe dell’esperienza malattia.
Il viaggio ha un inizio con una presa in carico totale, conosce fasi importanti segnate da incontri e momenti fondamentali, ostacoli, vittorie, rivincite. Questo permette agli operatori di avere una visione globale del percorso da compiere e quindi sapere già come intervenire e come aiutare il paziente.
Noi sappiamo che lo scenario della sanità non ha certezze, si cerca solo di utilizzare le metodiche migliori per raggiungere il miglior risultato possibile. Si va verso l’ignoto, il mistero delle cose, ma con coscienza e scienza si attivano le fasi più efficienti del sistema. E come tutti viaggi della vita anche nel viaggio del paziente si utilizza una mappa, speciale e particolare, senza cui l’intero percorso non sarebbe realizzabile, ovvero la mappa delle emozioni .
Lungo il viaggio del paziente, non importa quante stazioni dovremo visitare e quante coincidenze dovremmo attendere, non importa se il treno sarà stracolmo di gente o con poche persone pronte a porgere l’altra guancia, non importa se saremo cento o mille, se sarà sempre freddo o caldo, se le guance saranno rigate di lacrime o illuminate dai sorrisi. L’importante sarà avere il grande potere della cura, accogliere l’altro come estremo supremo dell’integrazione, prendere le sue parole e trasformarle in narrazioni di emozioni concrete, infinite, tracciare le linee della speranza.
Non importa quanto lungo sarà il viaggio, l’importante sarà seguire la mappa che ci renderà completamente umani per non lasciare nessuno solo senza l’altro. Dobbiamo usare le nostre mani per proporre nuove idee, creare un mondo più attento, capace di ascoltare, vedere, toccare, crescere.
Le nostre mani con la forza della mente e la genuinità dello spirito possono interrompere il percorso della solitudine e creare spazi infiniti di compagnia, incontri reali, in cui non esistono assenze ma luoghi in cui poter riscoprire e vivere tutte le possibilità della vita.
Come è iniziata questa storia?
Lì dove cielo e terra si uniscono ai confini del mondo, proprio lì dove alla fine dell’orizzonte c’è l’inizio della poesia .
Immaginiamo il paziente come una rondine che vola sola nel cielo, un cielo in tempesta, che brucia di fulmini e tuoni, il buio che incombe sulla terra, il volo messo in pericolo: la malattia. Uragano improvviso che spegne tutte le certezze.
Una rondine sola in mezzo a tutto questo: paura, smarrimento, dubbio, insicurezza, tristezza, inquietudine. Come fare ad affrontare questo inferno quando già il corpo fa male? Come guarire le ferite dell’anima?
Il Faro è il punto di riferimento, da sempre guida per i marinai, è colui che sfida le forze della natura nel buio dell’oceano e con la sua forte luce illumina per segnalare la presenza di un porto. Nel viaggio malattia per il paziente è il porto sicuro, meta da raggiungere, mano che salva dalla tempesta della solitudine. Il faro è simbolo di forza spirituale, quella che guida la rondine lungo il suo viaggio alla scoperta delle meraviglie che l’aiutano ad essere coraggiosa nonostante la paura.
Il faro è speranza, cambiamento, sicurezza, protezione. Come per un bambino i nonni sono il faro della vita così per un paziente solo la mappa delle emozioni rappresenta la strada sicura verso la rinascita. E come autori di una storia che crea il mondo noi infermieri siamo i fari, co-narratori di tratti di vita e diventiamo architetti “a volo di rondine” per tracciare quelle linee fedeli che ricalcano il viaggio verso la vita.
Con la coreografia delle mani, il potere della scrittura, il mistero della narrazione spontanea si raggiungono infiniti orizzonti, lì dove le rondini sanno volare, dove inizia la poesia, dove non serve parola alcuna… silenzio!
La Cura
Tra quei corridoi lunghi e infiniti,
negli spazi immensi dove l’attesa
diventa agonia,
fra gli angoli della sofferenza,
nella fragilità della malattia
dove il vento del dolore
soffia in faccia la sua crudeltà…
lì proprio lì
si incontrano quegli occhi,
si toccano con mano
storie nuove,
si riempie l’anima di nuovi incontri.
Passo dopo passo,
cammino dopo cammino,
mappa di emozioni
si tracciano
per riscoprire la magia,
la bellezza si fa spazio
tra le tenebre.
Prendermi cura di te
fino alla fine
abbraccerò la tua storia,
narreremo insieme la sua meraviglia
ti offrirò il mio tempo di cura,
tempo di vita
con questo lavoro
che resta il più bello del mondo.
Portiamo i colori nelle corsie d’ospedale
affinché non sia tutto solo bianco o nero!
Articolo a cura di Francesca Spinetti | Infermiera
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