Burnout
Essere consapevoli che si è in una condizione di Burnout è il primo passo verso la guarigione. Lo ha capito molto bene Massimo, un Infermiere che lavora attualmente in Toscana e che ha affrontato in prima persona la sindrome, sconfiggendola.
Il burnout è una realtà da non sottovalutare, mai
Studiata per la prima volta negli anni '70, la sindrome del burnout rappresenta uno spauracchio per qualsiasi infermiere. Sebbene le conseguenze possano essere devastanti non soltanto a livello professionale, ma anche sul piano umano, la tendenza tra i professionisti sanitari resta quella del conoscere il problema, ma sottovalutarlo non prestando attenzione ai primi segni e sintomi.
Il protagonista della nostra storia è Massimo (nome di fantasia), infermiere di 34 anni.
"Mi sono laureato nel 2006 presso l'università più vicina a casa. Ero comunque a quasi cento chilometri e con il servizio pubblico che c'era dovevo dormire nel salotto di una zia di mia madre, che si era sposata un cittadino. Per tre anni poi il venerdì sera tornavo a casa ed era sempre una bella festa, come se fossi mancato per mesi e mesi. Ricordo con molto affetto quegli anni, fatti di sacrifici, certo, ma anche della gioia di un'identità che sentivo via via sempre più mia. Volevo fare l'infermiere e ci stavo riuscendo. Il giorno della festa di laurea, verso sera, quando gli spumanti erano ormai svaniti di effervescenza e gli invitati erano andati via, mi sentivo sia perso per quello che lasciavo sia in partenza con una nuova fase della mia vita. Lo racconto sempre."
L’inizio della carriera
“Nel giro di una decina di mesi vinsi un concorso al nord, in Lombardia. Lì ho lavorato un paio di anni in una terapia intensiva. Anche se, per passione, avrei preferito specializzarmi in un altro tipo di reparto, le cose che si imparano in rianimazione restano impresse per sempre. Anche se non le si usano. In particolar modo il lavoro di squadra. In quell'ospedale si sentiva tanto l'importanza del singolo nell'équipe e per quanto molto non fosse applicato e le divergenze si protraessero a lungo, di fatto il ritmo e il carico di lavoro portavano a collaborare, volenti o meno. Per avvicinarmi a casa riuscii a fare un cambio con un collega dell'ASL 10 di Firenze. Feci tre anni in una terapia intensiva, di nuovo. Il livello era molto alto e i carichi assistenziali anche. Forse fu lì che iniziai a sentire la prima insoddisfazione".
Gli albori del burnout
"Sinceramente non l'ho capito nemmeno io durante quel periodo, ma penso sia stato proprio quello l'inizio del burnout. Amavo il mio lavoro, ma al contempo sentivo ansia al pensiero di entrare in servizio. Anche quando smontavo da notte e quindi avevo il giorno di recupero e il giorno libero, l'ansia non spariva mai. Contemporaneamente, durante la notte tra il turno pomeridiano e il turno di mattina, difficilmente dormivo. Piano piano cominciai a non riuscire a dormire, indipendentemente dal turno. Mi sentivo pienamente in grado e competente, ma proprio non riuscivo ad affrontare il turno. E queste cose che racconto sono cominciate con una bassa intensità fino a crescere e ad arrivare ad essere abbastanza forti. Fu allora che chiesi il trasferimento, sperando di lasciare in quei box, tra monitor e pompe infusionali, quel senso di infelicità".
Il trasferimento
“Arrivai in una medicina. Ritmi più tranquilli, complessità assistenziali inferiori. La notte riuscivi a stendere le gambe un paio d'ore, c'era chi asseriva di essere in dormiveglia, ma io ho sempre sentito molto russare e poco rispondere ai campanelli. I primi mesi non andava male, ma sentivo di avere sempre meno voglia di andare a lavoro. L'ansia si ripresentò e l'insonnia anche. Forse quella non se ne era mai andata del tutto.
Io non sono mai stato pigro, anzi; ho sempre creduto nell'essere scrupolosi. Nel nostro lavoro non puoi permetterti di lasciare qualcosa al caso o di tralasciare segni apparentemente innocui, anni di rianimazione mi hanno insegnato questo. Nononstante ciò, cominciai ad assumere comportamenti sempre più noncuranti della qualità del mio lavoro. Delegavo competenze e spesso lasciavo incombenze al turno successivo. I colleghi cominciarono a lamentarsene e la voce si sparse.
La cosa curiosa però è che mentre nella parte professionale della mia vita era frequente questa incontrollabilità emotiva, nella vita privata mi sentivo sempre più vuoto. È stata la mia compagna a farmelo notare."
Le implicazioni nella vita privata
"Ho la fortuna di avere una compagna comprensiva e molto paziente. Non sapeva nemmeno che esistesse il burnout, ma ha capito e mi ha supportato molto. Con le amicizie invece è andata peggio, soprattutto per colpa mia. Mi sono pian piano isolato. Alcuni hanno capito, altri, invece, li ho persi. Per il resto, in precedenza conducevo una vita attiva fisicamente, ma poi mi ridussi a passare i pomeriggi a cercare di dormire. Aumentai le sigarette che fumavo ogni giorno, senza neanche accorgermene."
Nell'estate del 2012 la mia compagna mi portò, quasi di forza, da una sua compagna di scuola, ora psicologa del lavoro. Fu la mia fortuna.
Volle sapere tutto quello che vi ho raccontato e mi spiegò cosa mi stava succedendo. Mi propose di fare insieme un percorso. All'inizio rifiutai. Poi verso l'autunno non riuscivo più a dormire e mi costrinsi ad andare. Penso che in fondo lo volessi. O forse fu orgoglio. Dopo quasi tre anni arrivò il giorno in cui mi dichiarò guarito, se così si può dire.
Ovviamente come moltre altre sindromi e patologie, la recidività è una realtà possibile e frequente, ma la psicologa mi ha fornito appositi strumenti per disinnescare le situazioni pericolose e riconoscere precocemente una mia ricaduta. A lavoro risalire la china è stata dura senza potermi dichiarare in burnout. Ho preferito così. Chi mi voleva capire come collega lo sapeva già per conto suo, senza che glielo dovessi specificare. Nel 2014 ci fu la possibilità di cambiare reparto e cambiai. La psicologa mi incitò a farlo. Il nuovo reparto era molto più affascinante, perchè specialistico. Era anche in un altro ospedale e questo mi diede nuova spinta. Oggi sono di nuovo appassionato ed ho ripreso in mano la mia vita, sia professionale che personale."
Il consiglio di chi ci è passato
"Odio le banalità e sarei troppo scontato nel fare slogan del tipo: dal burnout si può uscire! Quindi vi dico soltanto di amare il vostro lavoro e nel momento in cui questo amore si oscura, ponetevi delle domande. Fidatevi dei colleghi e condividete le vostre emozioni. Soltanto così non potrete sbagliare".
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