La sepsi è la risposta disregolata dell’organismo ad una infezione che si associa sempre ad una disfunzione o insufficienza di organi vitali. È una patologia “tempo dipendente”, l’esito clinico dipende dalla rapidità nel riconoscimento, da un efficace e tempestivo trattamento. L’aumento della vita media e delle malattie croniche la renderanno nei prossimi anni una delle patologie emergenti a livello mondiale destinata ad incidere in maniera sempre più importante sulle capacità di risposta dei sistemi sanitari e della loro sostenibilità.
Sei interventi per ridurre la mortalità da sepsi
Un paziente con sepsi è un paziente con un’infezione, sia essa di origine comunitaria o correlata all’assistenza, il cui “sistema di difesa” dall’aggressione esterna non riesce a rispondere nella maniera idonea alla risoluzione dell’infezione.
La sua patogenesi non è stata del tutto ancora completamente chiarita; la produzione di tossine da parte di alcuni microrganismi stimolano la risposta della persona a rilasciare sostanze che innescano un processo infiammatorio che inizialmente determinano una vasodilatazione, una successiva perdita di fluidi e possibile coagulazione del sangue a livello dei piccoli vasi sanguigni. Queste condizioni determinano insufficienza d’organo che richiede una rapida identificazione e trattamento.
Quando la sepsi non viene trattata in tempo può progredire in shock settico, una evoluzione della sepsi che aggrava le condizioni cliniche del paziente in particolare per un eccessivo abbassamento della pressione arteriosa.
Tale condizione determina un insufficiente apporto di sangue agli organi interni quali polmoni, reni, cuore e cervello, che aggrava la disfunzione degli organi stessi, perché alle anomalie circolatorie si sovrappongono quelle cellulari e metaboliche.
Fondamentale è la prevenzione delle infezioni, la tempestiva identificazione dei “pazienti sospetti” tra quelli che presentano sia instabilità clinica rilevabile attraverso l’utilizzo da parte dell’infermiere di una delle diverse scale di valutazione (MEWS, NEWS, NEWS2, qSOFA) che i fattori di rischio specifici, un rapido trattamento e l’identificazione della fonte infettiva.
Un bundle per il trattamento è stato proposto nel 2006 dalla “The UK Sepsis Trust”, che dopo la sperimentazione ha dimostrato una riduzione del 46,6% della mortalità se si interviene entro un’ora nei pazienti con sepsi grave e una diminuzione della durata della degenza.
Somministrare ossigeno
La sepsi determina uno squilibrio “critico” tra la richiesta di ossigeno da parte dei tessuti e il suo apporto, condizione che si viene a determinare per la vasodilatazione, la fuoriuscita di fluidi dai vasi e un flusso anomalo attraverso il letto dei capillari.
La domanda di ossigeno da parte delle cellule aumenta e per questo occorre migliorarne l’apporto attraverso la somministrazione di ossigeno ad alti flussi tramite maschera facciale in modo da portare SatO2 (saturazione di ossigeno nel sangue periferico) a valori >92-94%.
È necessario un monitoraggio accurato e continuativo in quanto in particolari casi (come ad esempio i pazienti con BPCO) la somministrazione di O2 può causare depressione respiratoria e segni e sintomi di distress respiratorio.
Il grado di compromissione respiratoria si valuta attraverso il rapporto tra PaO2 (pressione arteriosa di ossigeno) e frazione di ossigeno inspirata (FiO2), che rappresenta l’indice della respirazione alveolare (indice di Carrico o Horowitz).
In una persona sana questo indice corrisponde a 450, dove la PaO2 è in genere di 95 mmHg e la FiO2 in aria ambiente corrisponde al 21% quindi l’operazione è: 95/0,21 = 452.
Quando il rapporto P/F scende, gli scambi alveolari peggiorano e, ad esempio quando sono inferiori a 200, sono il sintomo di una grave insufficienza respiratoria.
I valori dei due parametri si ottengono dall’emogasanalisi per quanto riguarda la pressione arteriosa di ossigeno, il secondo valore dipende dal dispositivo di ossigeno utilizzato.
È necessario aumentare la frazione di ossigeno (FiO2) nell’aria inspirata con la somministrazione di ossigeno ad alti flussi che ne ampliano la quantità nella zona di scambio dei gas, cioè gli alveoli.
L’ossigeno extra negli alveoli favorisce la diffusione nei polmoni e, a sua volta viene, assorbito dall’emoglobina dei globuli rossi aumentando il contenuto di ossigeno del sangue che raggiunge i tessuti.
Somministrare antibiotici per via endovenosa
Dopo i prelievi colturali si inizia la somministrazione di una terapia antibiotica empirica mirata, ovviamente la più ampia possibile in base:
- Ai segni e sintomi
- Alla possibile sede dell’infezione
- Ai probabili microrganismi responsabili
Gli antibiotici utilizzati in questa fase - soprattutto se si tratta di fluorichinoloni, cefalosporine e amminoglucosidi - determinano un altro tasso di resistenze antibiotiche per cui è necessario che la risposta colturale sia il più rapida possibile per ridurre lo sviluppo di resistenze.
Un trattamento antibiotico per via endovenosa aumenta il rischio infettivo per questo è necessario che vengano rispettate le raccomandazioni per la prevenzione delle infezioni del torrente circolatorio.
Somministrare fluidi
Il paziente è ipovolemico per la vasodilatazione e la fuoriuscita di fluidi indotta dai mediatori della sepsi, che portano ad ipotensione e ipoperfusione, quindi è necessaria la somministrazione di liquidi per far ottimizzare il trasporto di ossigeno e ridurre la disfunzione d’organo. Il trattamento dell’ipovolemia è un passaggio chiave.
Il riempimento volemico è di 30 ml per chilogrammo (ml/Kg) con soluzioni cristalloidi in 30 minuti. Si procede alla somministrazione di 500 ml di cristalloidi, con successive rivalutazioni; ad esempio, in un paziente di 70 kg si infonderanno 2 litri di cristalloidi in boli rapidi da 500 ml con rivalutazioni dopo ogni 500 ml.
Per sapere qual è il riempimento volemico necessario, cioè quanti liquidi è necessario infondere per ridurre ipotensione e permettere l’arrivo dell’ossigeno agli organi e ai distretti corporei periferici si misura la pressione arteriosa media (PAM) che rappresenta la media pressoria all’interno delle arterie durante tutto il ciclo cardiaco (susseguirsi di sistole e diastole).
La PAM dipende dalla portata del cuore e dalle resistenze arteriose periferiche ed è calcolabile matematicamente sui valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica. Nella sepsi è necessario raggiungere una pressione arteriosa media ≥65 millimetri di mercurio (mm/Hg) e una frequenza cardiaca (FC) < 100 battiti al minuto (bpm).
Se dopo la somministrazione di 2-3 boli di cristalloidi il paziente è refrattario e non si riporta la PAM ai livelli utili alla perfusione dei tessuti è indicato l’utilizzo di farmaci vasoattivi (es. noradrenalina). Tale somministrazione richiede l’utilizzo di un accesso venoso centrale e un monitoraggio invasivo della pressione arteriosa.
Monitoraggio della diuresi
La diuresi è una misura diretta della filtrazione glomerulare, la quale è direttamente proporzionale alla portata cardiaca. La diuresi nelle prime fasi della sepsi, in assenza di danno renale, è un buon indice di valutazione della portata cardiaca e della perfusione d’organo.
È quindi fondamentale monitorare la diuresi oraria, meglio con l’utilizzo della cateterizzazione vescicale e dell’urometro affinché si raggiunga il target >0,5 millilitri per chilogrammo all’ora (ml/Kg/ora) o >40 millilitri all’ora (ml/hr) nell’adulto.
Il controllo della diuresi è importante per monitorare il paziente durante il riempimento volemico e valutare la risposta o la comparsa di effetti collaterali per ogni bolo di fluidi somministrati.
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