Il 78% degli infermieri che lavora nei reparti di medicina generale e geriatria (il 68% in ortopedia e traumatologia e il 65% in riabilitazione e lungodegenza) è affetto da uno status di esaurimento emotivo o burnout; a dirlo è lo studio sugli esiti sensibili alle cure infermieristiche pubblicato recentemente sulla rivista AIR (Assistenza Infermieristica e Ricerca). L’obiettivo è stato quello di valutare come le caratteristiche del personale, del benessere lavorativo degli infermieri e delle ore di assistenza erogata possano impattare sull’insorgenza di lesioni da pressione, cadute e utilizzo della contenzione. Questa importante ricerca ha arruolato 134 unità operative italiane (suddivise per macroaree medicina/geriatria, ortopedia/traumatologia e riabilitazione/lungodegenze) e coinvolto 2606 infermieri e 24110 pazienti.
Infermieri ed esiti sensibili alle cure, fattori di rischio e protettivi
Sebbene più della metà abbia dichiarato di soffrire di burnout e denunciato una sorta di depersonalizzazione in atto, ovvero un atteggiamento di distacco nella relazione d’aiuto con i pazienti, il 90% ha espresso soddisfazione per l’interazione con i colleghi infermieri e per lo status professionale.
Meno brillante è risultata, invece, la relazione con i medici, considerata positiva solo da poco più della metà del campione. Le politiche organizzative vengono ritenute dagli infermieri poco soddisfacenti, (meno della metà ha espresso un parere positivo in merito) e la quasi totalità ritiene il proprio salario inadeguato in relazione all’attività lavorativa svolta.
Esiti sulle persone assistite
L’incidenza delle lesioni da decubito si aggira tra il 5 e l’8% e le lungodegenze hanno le percentuali più elevate.
Se consideriamo come mezzi di contenzione fisica le spondine del letto, la fascia addominale, la polsiera, la carrozzina con tavolino, queste sono state applicate mediamente al 41% dei pazienti ricoverati in medicina/geriatria, al 24% in ortopedia e traumatologia e al 57% in lungodegenza.
Le cadute hanno avuto un’incidenza tra lo 0.8% in ortopedia e traumatologia e il 2,9% nelle lungodegenze e riabilitazioni.
L’associazione tra caratteristiche degli infermieri ed esiti sul paziente
È stata evidenziata una riduzione del 20% del rischio di insorgenza di lesioni da pressione all’aumentare delle ore giornaliere infermiere/paziente.
Questo aspetto si rivela maggiormente significativo nelle medicine e geriatrie, dove la presenza di più del 10% di infermieri con età superiore ai 50 anni, un alto work engagement (intesa come dedizione lavorativa), la soddisfazione per le politiche organizzative e l’interazione con gli altri infermieri sono fattori protettivi per l’insorgenza di lesioni da pressione.
Più è elevata la depersonalizzazione tra gli infermieri maggiore invece è il rischio di lesioni da pressione. I fattori di rischio individuati per l’incidenza di lesioni da pressione sono stati:
- la deambulazione non autonoma
- l’indice di Braden lo stato cognitivo non collaborante o non vigile
Per quanto riguarda la contenzione l’unica caratteristica del personale che può esporre ad un maggior rischio di utilizzo è l’esaurimento emotivo degli infermieri.
Sono invece fattori protettivi, che quindi diminuiscono il rischio di utilizzo di contenzione con mezzi fisici, nelle lungodegenze e riabilitazioni la presenza di infermieri ultracinquantenni (più del 10%), di almeno un terzo di infermieri laureati e la soddisfazione per l’interazione con i medici.
Dal punto di vista clinico la deambulazione non autonoma e lo stato cognitivo non collaborante sono associati ad un aumentato rischio di utilizzo della contenzione e di caduta. Nessuna caratteristica dello staff infermieristico è risultata invece associata significativamente al rischio di cadute.
Maggiori carenze di personale uguale peggiori esiti sui pazienti
Dopo studi come RN4CAST l’attenzione per i nursing sensitive outcomes è progressivamente aumentata dando alla luce risultati importanti e dimostrando che nei contesti in cui le carenze di personale sono maggiori gli esiti sui pazienti sono peggiori.
Laddove invece è riportato un rapporto infermieri/pazienti numericamente migliore diminuiscono conseguentemente le situazioni in cui gli infermieri non riescono a riconoscere le criticità dei loro pazienti, le cadute, la durata della degenza e le riammissioni.
Già altri studi avevano dimostrato che un miglior rapporto personale sanitario/paziente, una relazione positiva tra medici e infermieri, un maggiore coinvolgimento degli infermieri nei processi decisionali sono associati ad un miglioramento sugli esiti del paziente tra cui la riduzione della mortalità, la durata della degenza, l’uso delle terapie intensive, delle riammissioni e delle infezioni ospedaliere.
Questo studio ha in primis evidenziato che esiste una grande variabilità tra le caratteristiche dei pazienti coinvolti anche all’interno della stessa macroarea di indagine, ma nonostante questo ha evidenziato una relazione molto importante tra la positività del clima lavorativo e delle relazioni professionali inter e multidisciplinari e la riduzione di esiti negativi sul paziente.
Sembra quasi scontato dirlo, ma laddove gli infermieri lavorano meglio, sono soddisfatti della collaborazione reciproca e delle politiche organizzative il risultato sul paziente è migliore, favorendone il processo di cura e assistenza
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