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Testimonianze

Quando una malattia rara colpisce un infermiere

di Monica Vaccaretti

Sindrome di Susac. Non sapevo nemmeno esistesse. Mi sono fatta ripetere più volte il nome quando ti hanno fatto diagnosi, prima a Brescia poi a Vicenza, proprio non mi entrava in testa. O forse non mi entrava nell'anima che fosse capitato proprio a te. Con tutte le malattie che ci sono, hai avuto la disgraziata sorte di ammalarti di una rara, scoperta nel 1979. L'anno della tua nascita. Ci sono soltanto 300 casi al mondo. Trecento casi e te. Che non sei un caso ma sei sempre stato raro anche quando stavi bene. Sei Augusto, il mio miglior amico e un infermiere.

La sindrome di Susac e te

Sei stato tu a dirmi, sul letto di ospedale, che si tratta di una malattia autoimmune che colpisce prevalentemente giovani donne di età compresa tra i 20 e i 40 anni, ma che non mancano casi di esordio nell'infanzia e nella tarda età adulta. Eri ben informato, ti eri aggiornato sullo stato di conoscenza della malattia che ti aveva colpito. Non si sapeva molto ma tu volevi sapere tutto, la vita la guardavi in faccia sin da bambino. Ti comportavi in modo distaccato come il caso non fosse tuo ma un credito ECM.

Hai compiuto 41 anni in neurologia, il 29 settembre dell'anno scorso, nelle statistiche ci sei dentro per un soffio. Ma i sintomi erano cominciati già a giugno e forse prima ma non me ne ero accorta. Dicevi di sentirci poco, davi sempre colpa a quei fastidiosi acufeni che erano peggiorati. Pensavo fosse la tua stranezza, la tua cronica carenza di sonno per via del troppo lavoro da libero professionista e per le dodici notti al mese, gli acufeni di cui già soffrivi.

E me ne faccio una colpa per non aver colto i primi inquietanti segnali, come quella notte che sono venuta a riprenderti in un posto sperduto perché avevi l'auto in panne sul ciglio della strada. Ma che ci fai qui? Sono venuto a farmi un giro. Alle due di notte? Non riuscivo a dormire. Ma ti capita spesso di uscire di notte a farti un giro per addormentarti? Non lo facevo da un po'. Stai bene? Certo. Sei sempre stato bravo a tacere, sei un uomo di poche parole e che racconta poco dei fatti suoi. A me sembravi più taciturno del solito, tenevi uno sguardo strano, assorto nei tuoi pensieri. Ti ho fatto qualche domanda, eri orientato nel tempo e nello spazio, rispondevi a tono. Ti ho riportato a casa, non c'era motivo di andare in Pronto soccorso, avevi bisogno di una terapia del sonno. Qualche mese dopo i carabinieri ti hanno trovato mentre vagavi in stato confusionale nei dintorni del Lago di Garda. Quando la memoria è tornata mi hai chiamata dalla neurologia di Brescia. E nel giro di un'estate non sei più stato tu.

Un anno è passato da allora. Ora hai bisogno di tutto. Ti hanno portato in una RSA, una residenza sanitaria specializzata in stati neurovegetativi. L'ospedale non poteva tenerti più, il primario della medicina riabilitativa, che di lesioni cerebrali importanti ne ha trattate tante, di te ha detto che ci vorrebbe solo un miracolo, così qualche giorno prima di Natale, dopo il consulto con i neurologi che ti avevano preso in carico e in simpatia, ti hanno trasferito qui.

È un posto che conosci bene, era da questo reparto che mi chiamavi qualche volta prima di montare la guardia. Sei un infermiere, uno di quelli bravi. Sapevi e sapevi fare bene. Ti prendevi cura della gente in un modo diverso, speciale. Non come si impara all'Università, ma come lo si fa venendo dalla strada e facendolo per strada.

La tua Mini blu, con l'adesivo Infermiere a bordo, ha fatto tanti di quei chilometri che adesso vederla sotto casa, dove l'hai lasciata, fa male. Il tuo borsone rosso di infermiere domiciliare è ancora aperto sul tavolo della cucina. Ci sono tante famiglie a cui manchi, avevano imparato a volerti bene. Ricordo quel giorno che mi hai portato con te, abbiamo lasciato il tavolo del ristorante perché ti avevano chiamato, c'era una flebo da fare per accompagnare qualcuno che voleva andarsene con te. Era la prima volta per me. Alla fine, ti sei acceso una sigaretta. E non abbiamo più finito quella cena.

Hai la tracheostomia e la peg, i pasti di Nutrison sono collegati alla pompa infusionale, mangi bene e ad orario. Non hai un grande calo ponderale. Si prendono cura di te con una attenzione particolare, sono i tuoi colleghi, ti conoscono e gli piange il cuore. La pelle è idratata, la barba rasata, il capello ha un taglio fresco, le unghie delle mani sono ben fatte. Tieni sempre una maglietta diversa, pulita. Hai le braccia ben posturate sui cuscini antidecubito. Cominci a non reggere il peso del capo, ti cade di lato così il poggiatesta ti aiuta a non sbandare. Sotto di te noto la rete a maglia e le maniglie per gli agganci del sollevatore. Ti mettono anche la mascherina chirurgica quando veniamo a farti visita.

So che non erano queste le tue disposizioni nel testamento biologico, ma il comitato di Bioetica dell'ospedale deve avere deciso diversamente, in accordo con il tuo tutore legale al quale avevi lasciato le tue volontà prima di stare troppo male. Forse i medici hanno deciso di darti l'opportunità di tenerti in vita, garantendoti ossigeno e nutrienti bilanciati, perché sei troppo giovane. Forse perché sei uno di noi. È difficile fare certe scelte. Al posto tuo. Li rispetto.

Siamo in terrazza, con vista sul giardino e sulle mura cinquecentesche di Vicenza. Le misure anti Covid ci permettono di stare ora all'aperto. Luigi viene spesso a trovarti, sta cominciando a portarti in visita qualche vostro amico che chiede di te. Oggi mi ha scritto che ogni volta che viene da te ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un vicolo cieco, ma che forse ha ancora un senso venire anche soltanto per portarti fuori al sole perché tu senta il calore del mondo e il vento sulla pelle. Mi ha fatto piangere.

Ha buon cuore, Luigi, lascia i suoi campi e la famiglia appena può e viene qui da Padova, anche in Vespa. Mi racconta aneddoti su di te ed io gli racconto quello che facevi qui che lui non sapeva. Ti leggiamo qualcosa insieme, Murakami che ami e le storie che scrivevi tu sul tuo blog. Avresti voluto essere uno scrittore oltre che un infermiere. Ti facciamo ascoltare musica, dalla classica al metal passando per il rock. Chiacchieriamo con te, di te. Farlo insieme è più semplice, forse meno doloroso.

Mi guardi ma so che non mi vedi. Sembri orientare il capo verso la mia voce ma è soltanto un movimento involontario ed inconscio. Non mi senti. Hanno sempre avuto ragione i medici. Ho sempre pensato e lo penso tuttora che tu sia finito in un altro mondo, ma che qualcosa di noi ancora ti arrivi, magari attraverso la musica che può andare oltre il suono, come il pensiero che non ha confine, come le idee che non hanno tempo. Ho pensato anche che con un auricolare ti arrivi meglio dentro, più da vicino. Sono convinta che la tua anima ci senta, perché sei vivo.

È qui con noi, mentre ridiamo e piangiamo. Ci deve essere da qualche parte un codice segreto per comunicare con te. Forse basta soltanto chiudere gli occhi quando li chiudi anche tu, come fossi stanco della troppa luce, e lasciar parlare le anime in silenzio. Farle andare dove sei tu. Non dire più niente, soltanto lasciarsi andare.

Sei pronta a vederlo? Mi ha chiesto la coordinatrice della neurologia quel giorno che sei tornato dalla rianimazione. Certo, sono un’infermiera. Non ero pronta, invece. Non lo sono neanche ora, ogni volta che vengo da te sulla terrazza. Nessuno ti insegna ad essere forte. Quel che resta di noi è l'umanità. Soltanto questo ha un senso quando un senso non c'è più.

Oggi è il tuo compleanno. Ti ho portato un dolce. Come un anno fa. Alla tua anima piace il cioccolato. Te la mangi con gli infermieri del turno. Il tuo dono è una candela, una Yankee Candle. Semplicemente le adori, la tua casa ne è piena. Oddi sta bene, un giorno te lo porto. Basta metterlo nel trasportino. Il tuo gatto ama acciambellarsi su di te, ti farà le fusa. Forse il codice sta nel gatto o forse in un semplice Ti voglio bene, Augusto. Torniamo presto. Luigi ti porta a fare un giro sulla terrazza e magari sconfiniamo giù in giardino tra le rose.

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