In RSA è indispensabile che l’infermiere/a sia un tramite costantemente attendibile tra paziente e medico, persino più che in altre realtà come quella ospedaliera. Gli ospiti sono tanti, molto vulnerabili se non proprio fragili, imprevedibili. Per tutti loro, non ci si può limitare a somministrazione della terapia e sorveglianza, ma occorre dedicargli tempo aggiuntivo con la cosiddetta “positive care”
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Un’RSA è una sfida continua
La sveglia suonava alle quattro e trenta, implacabile, il più delle volte. “Infermiera fuori turno” – solo mattini e pomeriggi, niente notti – aveva infatti stabilito per me la Capasant… Ops, Coordinatrice.
Le avevo dato quel nomignolo affettuosamente, perché le volevo bene davvero, come onestamente meritava. Lavoravo presso un’RSA, fino a poco tempo fa.
Amavo quel posto di lavoro, malgrado le notti insonni sempre più frequenti che mi causava. Come fuorisede, dovevo viaggiare tutti i giorni ed anche questo contribuiva allo stress generale.
Un’RSA è una sfida continua, specie nei nuclei, o moduli, a maggior intensità di cura. Non solo la terapia è numerosa, ma le attenzioni per i pazienti/ospiti devono essere al massimo, per poterli conoscere quasi a menadito.
È indispensabile che, in un luogo simile, l’infermiere/a sia un tramite costantemente attendibile tra paziente e medico, persino più che in altre realtà come quella ospedaliera. Gli ospiti sono tanti, molto vulnerabili se non proprio fragili, imprevedibili.
Si parte dagli anziani con capacità cognitive in forte declino, che presentano richieste ripetitive, o necessitano di personale sanitario con ottime doti interpretative per essere compresi nei loro bisogni fondamentali.
Per tutti loro, non ci si può limitare a somministrazione della terapia e sorveglianza, ma occorre dedicargli tempo aggiuntivo con la cosiddetta “positive care”: bisogna cioè coinvolgerli, grazie al prezioso ausilio degli educatori, in attività ricreative di vario genere (dal disegno, se possibile, al canto, alla doll therapy e così via).
Si arriva a pazienti in condizioni psicofisiche molto gravi, costantemente allettati, magari contenuti per la loro stessa salvaguardia (tendono talvolta ad autolesionismo); sono portatori di PEG, cateteri vescicali, talvolta colostomie e spesso tracheostomie, tutti dispositivi la cui gestione è responsabilità infermieristica.
Un’RSA è sicuramente un luogo di grande e costante apprendimento, per tutte le figure professionali ivi coinvolte. L’équipe ideale è composta dai medici (guidati, naturalmente, come l’intera struttura, da un Direttore Sanitario), da uno o più coordinatori infermieristici, dagli infermieri, dagli OSS, dagli educatori, dai fisioterapisti.
Vi sono poi gli addetti alla sicurezza e quelli al controllo della qualità dei servizi erogati. Maggiore è l’armonia tra tali figure, ça va sans dire, migliore sarà la qualità delle cure. Gli attriti personali sono talvolta inevitabili, ma gli stessi sono i peggiori nemici dei sacrosanti livelli essenziali di assistenza.
La mia esperienza di lavoro come infermiera in RSA non si è, purtroppo, potuta spingere oltre i sudatissimi sette mesi consecutivi. Non sono giovanissima, ma lo sono professionalmente, ed ho ancora necessità di attingere al vasto patrimonio teorico infermieristico per potermi poi dedicare ad una messa in pratica immancabilmente molto provante, ma senz’altro sempre arricchente dal punto di vista umano.
Lo sottolineo, senza retorica.
- Rossella Dettori | Infermiera
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