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editoriale

Infermieri, continuiamo a coltivare umanità

di Daniela Berardinelli

Non voglio peccare di finto buonismo: esiste il paziente da cui davvero non vorresti andare, da cui non te la senti, che proprio non ti piace, ti mette a disagio, incarna proprio quello che del mondo e della società non ti va, esiste eccome, lo ammetto. Ma ci vado lo stesso. Perché a me questo hanno insegnato e lo faccio con logica, priorità e pensiero critico. Ma oggi, con i tempi che corrono - e ai quali io non voglio stare dietro - sento che esiste una ferita che pochi vogliono medicare, altri preferiscono girarsi altrove, o trovare una ragione per non continuare a guardare quello stillicidio che sta colpendo la nostra umanità.

Sono infermiera: il mio lavoro è senza colori, senza razze, senza etnie

Inizialmente credevo di essere indignata, invece la parola che meglio rappresenta lo scorrere dei miei pensieri è “perplessa”. Rifletto sul tempo, il mio, quello dei nostri figli e delle persone che ci circondano, di tutte quelle che ogni giorno incontro e sono tante e diverse.

Già perché tutte le volte che entro in ospedale e indosso la mia divisa, mi approccio a molte persone e so che è proprio questo il bello del mio lavoro, la sua peculiarità, quello che ogni giorno mi spinge a farlo e a pensare che ho fatto davvero la scelta giusta e che la bilancia pende ancora dalla parte buona.

Sento che però qualcosa sta cambiando, in peggio purtroppo, devo dirlo. Faccio l’infermiera e il colore che ho è solo quello della casacca e del pantalone che l’ospedale mi ha fornito, lo indosso con l’orgoglio e il piacere di poter fare qualcosa per qualcun altro. Non è proprio questa l’anima della professione?

I tempi stanno cambiando ed io forse non riesco - o meglio - non voglio starci dietro. Io mi occupo di assistenza generale e specialistica e la garantisco a tutti coloro che transitano in quei letti con lenzuola bianche che ogni giorno vengono rinnovate. La parola chiave è proprio “tutti”.

Perché a me questo hanno insegnato: assistere, aiutare e pensare al prossimo e quando indosso la mia divisa lo faccio con logica, priorità e pensiero critico

Non mi dilungherò sui commenti razzisti, fascisti, xenofobi, omofobi, sessisti che purtroppo oggi spopolano su più terreni sociali e culturali, nascono nelle teste delle persone per essere poi espressi nei più disparati e sgangherati mezzi di comunicazione; perché oggi diciamo proprio “tutto”.

E allora dovrei dire “Viva la libertà di espressione, abbiamo la democrazia, siamo fortunati”, e invece non lo faccio, (anche se ovviamente sono grata di avere una democrazia e spero che continui vivamente ad essere la nostra unica forma di governo), perché il problema è che oggi diciamo “tutto” a “tutti” e ci sentiamo autorizzati e quasi obbligati (da chi non so, forse il più grande deus ex machina è il nostro smartphone), e allora via, via ai commenti… e qui allora la mia perplessità si tramuta in preoccupazione.

Preoccupazione per l’odio (in primis a carattere culturale), per la cattiveria e la superficialità che sento, leggo e vedo dilagare; ma tutto ciò non avviene solo nel web, sullo smartphone, in televisione, nei giornali. Avviene per strada, tra la gente, scorre davvero nelle vene delle persone.

E scorre anche silente in ospedale, in un luogo di accoglienza per definizione, che nel nostro paese ascolta, risponde, dialoga, visita, cura, assiste, accompagna tutti coloro che vi si presentano per necessità di salute.

Perché se questo prima poteva essere un vanto, quello di poter garantire un’assistenza ottimale e gratuita a tutti, adesso non lo è più, anzi forse il nostro modus operandi è diventato agli occhi di qualcuno addirittura un difetto.

Le risposte a questo saranno diverse: qualcuno parlerà di tasse, altri di bei tempi passati, altri di pacchia finita, altri di sprechi e consumi, altri di risorse che non ci sono più. Ma io - e con questo, sia chiaro, non voglio dileguarmi silenziosamente dai problemi economici che purtroppo affliggono il nostro sistema sanitario - non mi occupo di economia, io faccio assistenza e la faccio sentendo e coltivando ogni giorno umanità.

Non voglio peccare di finto buonismo: esiste il paziente da cui davvero non vorresti andare, da cui non te la senti, che proprio non ti piace, ti mette a disagio, incarna proprio quello che del mondo e della società non ti va, esiste eccome, lo ammetto. Ma ci vado lo stesso.

Non fingerò sorrisi, andrò dritta al sodo, insomma farò quello che devo ma, ripeto, ci vado comunque perché questo è il mio lavoro, ed è senza colori, senza razze, senza etnie, senza sessismo e orientamento sessuale.

Perché di “gente” ne abbiamo davvero vista tanta noi sanitari e sicuramente abbiamo assistito e curato i “buoni” e i “cattivi”, e chissà quanti cattivi che nemmeno sapevamo che lo fossero; perché sono stata a contatto con persone gialle, nere, verdi, rosse, blu, grigie, i colori che ognuno di noi ha e porta con sé o dei quali può diventare durante una degenza sono davvero molteplici, ma noi siamo sempre lì e io continuo a non fare differenza e allora mi domando tutto questo sciame e bailame politico che esce dalle nostre bocche davvero lo pensiamo? Davvero? Proprio noi che svolgiamo questo lavoro di aiuto verso il prossimo? (E lo dico in piena laicità).

Perché a me questo hanno insegnato: assistere, aiutare e pensare al prossimo e quando indosso la mia divisa lo faccio con logica, priorità e pensiero critico. E allora la mia preoccupazione adesso diventa nausea, che mi fa assumere proprio quei vari colori che tendono dal giallo al grigio quando si sta male e sento che esiste una ferita che pochi vogliono medicare, altri preferiscono girarsi altrove, o trovare una ragione per non continuare a guardare quello stillicidio che sta colpendo la nostra umanità.

Se medicare quella ferita vuol dire macchiarmi allora sono contenta di sporcarmi le mani, la testa per aiutare delle persone che sono in difficoltà e non mi interessa per quale motivo scappino o vadano via da un paese che o ha risorse limitatissime, (perché dalla tetta migliore continuiamo a dissetarci noi), o ha la Guerra, quel mostro nero che insieme alla Povertà distrugge la vita e al contempo anche la morte, distrugge tutto.

E proprio noi che facciamo questo lavoro conosciamo bene la differenza tra la vita e la morte, perché la morte spesso l’abbiamo vista, vissuta e toccata e facciamo di tutto affinché i nostri pazienti non muoiano.

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