Tutti i giorni, ad ogni turno, ti chiedi quanto sia difficile fare la cosa giusta. E poi fai un giro sui social e trovi il video di un'attrice di teatro - Giuliana Musso, si chiama - che nei panni di un’infermiera racconta perfettamente il vissuto quotidiano di un reparto di medicina. Ascolti parola per parola e scorrono nella tua testa tutti loro. I pazienti, i parenti. Brividi. Nuda Realtà. Questo siamo.
Chissà cosa si prova a morire tra quattro mura estranee, tra estranei
Finalmente è finita, un altro turno in reparto è finito. Sto finalmente stimbrando il cartellino ed eccolo lì il solito pensiero: "Avrò fatto tutto? Avrò fatto bene? Potevo fare altro?"
Oggi ho visto le lacrime negli occhi di due colleghe, stavano sistemando una salma. Un corpo ormai inerme di un uomo che aveva chiesto da tempo di essere lasciato andare... Un uomo ricoverato da più di un mese con la vita appesa ad un filo troppo sottile.
Quante volte ti viene quell'ansia? E ora cosa devo dire ai familiari?
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Dai, vieni a farti un giro. Nel mio reparto i pazienti non hanno più nemmeno un nome e un cognome, li chiamiamo secondo la loro patologia. Guarda la faccia di certi professionisti; la maggior parte son tesi, stanchi, arrabbiati. Il perché è ovvio: ma come puoi essere felice di lavorare in questo modo qua?!
E come sempre si ripete quella scena un po' goffa in cui stringi loro la mano e magari chiedi se han bisogno di una sedia o di acqua... come se questo potesse alleviare il dolore.
Chissà cosa si prova a morire tra quattro mura estranee, tra gente estranea... e quante volte ci siamo solo noi a quel capezzale?
È giusto così? È solo una questione di conoscenze? Si sa che intavolare un discorso sull'accanimento terapeutico non è mai facile. Chi può dire quando è ora di dire basta?
Ognuno ha la propria idea, mi dico. Ognuno ha un proprio credo religioso, ognuno ha situazioni e, perché no, familiari con "cultura" diversa.
Ma chi dovrebbe prendere la decisione? Quante volte la medicina difensiva ci ha portato a fare cose che sapevamo già essere inutili?
Deve decidere il familiare? Ma quanto è difficile essere un familiare di un paziente terminale? Come si fa a decidere della vita del proprio caro se poi ti assalgono i mille sensi di colpa e stai vivendo uno dei momenti peggiori della tua vita?
Empatia significa mettersi nei panni degli altri, prima di giudicare un familiare che dice "fate tutto quello che dovete, ma fatelo vivere" bisogna.
Sono contro l'accanimento terapeutico, ne ho visti troppi morire dopo troppi tentativi di tenere in vita, eppure in realtà non lo so se "in quel momento" avrei mai la forza per dire "lasciamo che vada"
E sì, forse è sano egoismo o forse è solo una grande instabilità emotiva che la morte di una persona cara dà. E allora forse quello che spesso manca è un punto di riferimento stabile ed esterno che prenda una decisione. Un garante che tolga a te la famosa decisione, che non ti lasci quella domanda in testa: E se avessi fatto diversamente?
Forse è questo che noi infermieri e medici dovremmo essere per i nostri cittadini: i garanti. Io professionista so che non c'è via di fuga, io professionista ti aiuto a superare il momento e provo a far passare un po' di tempo dopo il tuo primo no pieno di tristezza e di rabbia.
Io professionista che ho la giusta formazione per sapere quando è ora, io che ho il giusto distacco emotivo, io dovrei forse guardare in faccia quel paziente che m'implora di morire, io dovrei guardare in faccia quel familiare e sapergli dire basta, io - come aveva detto ironicamente un cardiologo di guardia - dovrei guardare i segnali che il buon Dio mi manda.
E poi fai un giro sui social e trovi il video di un'attrice di teatro - Giuliana Musso, si chiama - che nei panni di un’infermiera racconta perfettamente il vissuto quotidiano di un reparto di medicina. Ascolto parola per parola e scorrono nella mia testa tutti loro. Quanto è difficile fare la cosa giusta.
Brividi. Nuda Realtà.
Questo siamo.
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