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editoriale

Fine vita, quel sottile margine tra accanire e accudire

di Paola Arcadi

È di questi giorni la notizia della morte di un uomo di Treviso malato di Sla a cui è stata praticata la sedazione palliativa profonda. Mi ha colpito molto la lettura dei comunicati dei media, per i quali l’evento rappresenta un’eccezionalità, un “primo caso in Italia”, una notizia da posizionare a grandi titoli in prima pagina, con un palese richiamo all’eutanasia che, a mio avviso, rischia di trasmettere un messaggio pericoloso e fuorviante.

Accanire o accudire?

mani nella morte

La sottile differenza tra accanire e accudire

Il Comitato nazionale per la bioetica (2016) definisce così la sedazione palliativa profonda: Una somministrazione intenzionale di farmaci ipnotici, alla dose necessaria richiesta, per ridurre il livello di coscienza fino ad annullarla, allo scopo di alleviare o abolire la percezione di un sintomo, senza controllo, refrattario, fisico e/o psichico, altrimenti intollerabile per il paziente, in condizione di malattia terminale inguaribile in prossimità della morte. Alleviare un sintomo refrattario, fisico o psichico: questo è lo scopo.

Questo è ciò che quotidianamente vediamo utilizzare come buona prassi negli hospice, al domicilio e nei percorsi di accompagnamento alla morte. Non si tratta dunque di un caso isolato. Le cure palliative non riguardano solo il cancro, ma tutte le condizioni di inguaribilità, come quella vissuta dal signor Dino di Treviso, e tra l’altro sono riferite alla presa in carico durante tutto il percorso di cura, non solo nella stretta terminalità.

Il fatto in sé potrebbe dunque, in estrema sintesi, può essere commentato così: certi giornalisti non fanno informazione veritiera! Eppure, io credo che la notizia contenga molto di più e che rappresenti un esempio in cui ci viene consegnato uno spaccato culturale ampiamente diffuso, che coinvolge moltissimo anche gli infermieri e che ci conduce a una riflessione che riguarda alcuni scenari di senso che la morte può evocare. Un giorno uno stimato collega che intervistai per una ricerca sulle cure proporzionate in ambito infermieristico mi disse questa cosa:

Il margine tra accanire e accudire è davvero sottile. La professione sta in quel margine sottile, nella nostra capacità di sradicare alcune consonanti, che anzitutto richiede di saperle riconoscere

Camminiamo su una linea sottile, come funamboli intenti a trovare un equilibrio per non cadere, ma che riusciamo a mantenere solo se guardiamo di fronte a noi e individuiamo un punto fisso, quel punto che orienta il nostro cammino e che ci aiuta nelle scelte di fine vita, così difficili da protocollare, così pregne di complessità.

Quali sono dunque i punti fermi? Quali invece le turbolenze a cui dobbiamo porre attenzione?

Partendo dalla seconda domanda, un primo elemento da considerare riguarda la difficoltà generale con cui, oggi, più che in altri tempi, ci si accosta alla morte. La società nella quale viviamo, soprattutto quella urbana, cerca in ogni modo di allontanare la malattia e la morte; infatti, nell’ultima metà del XX secolo si è diffusa una pratica basata sull’imperativo tecnologico fra i professionisti sanitari, assieme all’aspettativa di malati e famigliari, secondo la quale deve essere provato ogni mezzo disponibile per prolungare la vita, delegando così sempre più l’assistenza dei morenti alle strutture ospedaliere. La morte, più di ogni altro evento, scatena nell’uomo una serie di emozioni forti e contrastanti, mettendolo di fronte ai suoi limiti e suscitando molti interrogativi per i quali, il più delle volte, non esiste una risposta certa. Nel momento in cui ci chiediamo se esiste uno spazio, un luogo, un linguaggio per rappresentare e dire la morte e il morire, non possiamo evitare di far cenno alla malattia inguaribile che per le sue caratteristiche appare un osservatorio privilegiato per poter cogliere l'irruzione della morte nella nostra vita e che più di ogni altra malattia rende visibile le forme e i modi della morte. Quanto più nella nostra cultura la morte e il morire sono occultati, nascosti, esiliati tanto più nella malattia inguaribile la morte si esibisce, si mostra, si spoglia. Una morte che non è solo biologica, ma che spesso è preceduta da morti parziali, da perdite e separazioni fisiche, sociali, emotive e relazionali.

Ecco che allora un caso di rispetto della volontà legittima di un paziente diventa notizia che risuona come un tam tam nell’etere, come evento eccezionale di cui discutere. Un caso che invece dovrebbe rappresentare l’ordinario, fatto di accompagnamento, di consapevolezza, di confronto, di autodeterminazione, di valutazione congiunta, di grande professionalità e di advocacy.

Ci si chiedeva in precedenza: quali i punti fermi che possono aiutarci a posizionarci sull’accudimento e non sull’accanimento? Sono molto contenta che la bozza del nuovo codice deontologico degli infermieri, tutt’oggi in discussione all’interno della comunità professionale, dedichi una parte specifica al fine vita. Affermare che l'infermiere presta assistenza fino al termine della vita della persona assistita riconosce l'importanza del gesto assistenziale, della palliazione, del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale e spirituale. E aggiungere che l'infermiere tutela la volontà della persona assistita di porre dei limiti agli interventi che ritiene non siano proporzionati alla sua condizione clinica o coerenti con la concezione di qualità della vita espressa dalla persona stessa significa affidarci una grande opportunità rinnovata: l’essere agenti morali di un cambiamento che oggi è urgente e cogente, e che si realizza nella funzione di advocacy e garanzia che tanto ci è cara e che tanto ci sentiamo cucita addosso. Ecco i nostri punti fermi.

Dalla prognosi infausta all'accompagnamento dei famigliari, l'infermiere non sia lasciato solo

Florence Nightingale

Ma non possiamo essere soli, perché la solitudine che spesso viviamo, nel porci questi quesiti, è fonte di frustrazione che inevitabilmente si ripercuote sulla relazione con le persone assistite, non consentendo una sua connotazione di autenticità e impedendo così il dispiegarsi di un’assistenza completa ed efficace. È fondamentale dunque che le istituzioni sanitarie sviluppino percorsi di riflessione condivisa tra i vari professionisti su aspetti fondamentali quali la comunicazione di una prognosi infausta, ad esempio, sull’accompagnamento dei famigliari verso l’allontanamento di quel senso di colpa tanto spesso è presente e di quel disagio conseguente al dover scegliere per i propri congiunti, che spesso si traduce in un’incapacità ad accettare la fine, ad accettare che la dignità della persona non passa da una nutrizione forzata o da trattamenti atti a posticipare l’evento morte, ma da gesti di cura fatti di conforto ambientale, sollievo dei sintomi, garanzia di benessere nel percorso di avvicinamento al termine ultimo della vita.

È fondamentale che i professionisti sanitari (medici, infermieri, tutti) facciano esperienza di confronto con la morte, di rielaborazione del vissuto, che acquisiscano maggiori competenze comunicativo-relazionali nell’ambito delle cure di fine vita, in un contesto dialogico che ponga le basi per la futura cooperazione interprofessionale. In ultimo, ma non da ultimo, attendiamo con fiducia che i rappresentanti della nostra politica siglino normative di maggior supporto all’autodeterminazione dell’individuo nel merito delle scelte riguardanti la propria vita, perché si possa garantire un diritto alla libertà di scelta così tanto umano e senza il quale non è possibile parlare di cura.

Riflettere su quello che viviamo di fronte alle situazioni che ci pongono continuamente su un filo sottile è un buonissimo punto di partenza per riuscire a prenderci cura dell’altro, in ogni situazione, come ci ricorda il prof. Borgna in questa frase a me molto cara:

Senza vivere in noi stessi questo tentativo continuo, oscuro, a volte difficile, a volte impossibile, di un’attenzione rivolta permanentemente a cogliere cosa si muove in noi per cercare di cogliere cosa si muove nell’altro, non si può fare alcuna umana disciplina che implichi un contatto con l’altro, come l’accompagnarsi per un tratto di strada con qualcuno che chieda aiuto

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