"Essere o non essere". Amleto si chiedeva riflettendo sull’opportunità di suicidarsi o meno, di scegliere, cioè, il male minore tra gli affanni del vivere e le conseguenze negative legate al suicidio.
Eutanasia, essere o non essere. Quel dubbio amletico che ci tartassa
Anche una persona in fin di vita o privata di poter usare il proprio corpo in tutte le sue potenzialità o affetta da una patologia cronico-degenerativa ha diritto di scegliere se è meglio vivere con le difficoltà oggettive o porre fine alla propria vita? Ce lo chiediamo oggi più che mai, visto il caso del piccolo Charlie in Inghilterra. La Cei ha invitato i genitori del bambino di 10 mesi definito incurabile dai medici inglesi a trasferirlo in un ospedale cattolico, come il Bambin Gesù, la cui presidente Mariella Enoc si sarebbe già messa in contatto con il Great Ormond Street Hospital. Disponibilità ad aiutare il piccolo Charlie anche dal presidente Trump.
In forza dell’ampliamento delle potenzialità della medicina, si pone la questione se accettare o meno trattamenti che possono prolungare la vita, in quanto alcuni possono essere ritenuti incompatibili con la propria dignità. Famoso è il caso di Piergiorgio Welby, tenuto in vita grazie a un respiratore, ma se ne contano circa 50 ogni anno che ricorrono alla morte volontaria assistita, migrando in Svizzera dove è consentita.
Eutanasia vuol dire letteralmente "dolce morte" e si divide in:
- Eutanasia passiva quando il medico si astiene dal praticare cure volte a tenere ancora in vita il malato;
- Eutanasia attiva quando il medico causa, direttamente, la morte del malato;
- Eutanasia attiva volontaria quando il medico agisce su richiesta esplicita del malato.
Dal punto di vista legale l’eutanasia attiva non è assolutamente normata da codici penali ben definiti, infatti è assimilabile all’omicidio volontario (articolo 575 del codice penale). Se si riesce a dimostrare il consenso del malato, le pene sono previste dall’articolo 579 (omicidio del consenziente). Nel caso di eutanasia passiva, pur essendo anch’essa proibita, la difficoltà nel dimostrare la colpevolezza la rende più sfuggente a eventuali denunce.
A partire dagli anni ‘30, nel mondo anglosassone nacquero numerose associazioni, che oggi sono riunite nella World Federation of Right to Die Societies (Federazione Mondiale delle Società per il Diritto di Morire), dove la principale attività consiste nel sensibilizzare l’opinione pubblica e, soprattutto, governi e parlamenti, sulla necessità di raggiungere stadi più progrediti nel riconoscimento dei diritti del malato terminale.
Il caso di Eluana Englaro, completamente immobile e priva di coscienza dal 1992, ha tenuto banco per molti anni. Il padre, stanco di vederla tenuta in vita da un sondino nasogastrico (e contro la stessa volontà della figlia), ha intrapreso diverse iniziative legali per sospendere le cure, senza alcun successo per molti anni. Finalmente, nell’ottobre 2007, la Corte di Cassazione, nel rinviare la questione alla Corte d’Appello di Milano, ha stabilito che l’interruzione delle cure può essere ammessa, quando il paziente si trova in uno stato vegetativo irreversibile e se, in vita, aveva manifestato la propria contrarietà a tali cure.
La Corte d’Appello, nel luglio 2008, ha autorizzato il padre di Eluana a interrompere i trattamenti di idratazione e alimentazione forzata.
Ma è giusto decidere a un certo punto di non soddisfare più i bisogni primari (idratazione e nutrimento ad esempio) o sarebbe meno sofferta una morte accompagnata da farmaci?
Considerando gli stadi terminali di tanti malati, dove la vita cede il passo alla morte, non si può rimanere ancora inermi su questa tematica. C’è sicuramente bisogno di fare di più perché chiunque potrebbe trovarsi nella stessa situazione; per non lasciar la difficile scelta sul destino della nostra vita a qualcun altro sarebbe opportuno mettere delle regole, regole ben chiare che traccino la strada da seguire, senza interpretazioni.
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