Dicono che Yessica sia stata sepolta con la divisa di infermiera. Pantalone bianco, casacca verde. Nel nostro ospedale gli infermieri vestono così. Non so se sia stato un desiderio dei familiari o se i suoi cari abbiano osservato una disposizione testamentaria, se ha avuto il tempo e la voglia di esprimere le sue volontà. Non è stata vestita con il suo abito femminile più bello, com'è solitamente costume dettato dall'affetto di chi resta o dal dress code del cordoglio. Se l'ha deciso lei, certamente provava un grande amore per la professione.
Deve aver nutrito un profondo orgoglio per quei panni, simbolo di cura
Deve aver nutrito un profondo orgoglio per quei panni, simbolo di cura e di scienza del prendersi cura.
Li aveva indossati nei giorni degli studi e della carriera, li ha portati anche negli intermezzi liberi da malattia in cui riusciva a tornare al lavoro.
Ed era felice, quando era in servizio. La faceva sentire probabilmente in salute.
Averli portati anche nell'ultimo saluto significa identificarsi soprattutto con il suo essere infermiera, dopo che in vita è stata madre. Dopo essere moglie, figlia e donna.
Se la divisa è stata decisa dai familiari, mi sembra un gesto pieno di rispetto verso la sua scelta di vita, portata avanti sino alla fine, ed un riconoscimento alla bellezza della professione di tutti i sanitari.
È dura morire a 36 anni per cancro ed avere il coraggio di scegliere di indossare una divisa, anche dopo la vita. Mi piace pensare che, nella sua storia di amore e di dolore, abbia lasciato un segno da cogliere. Una dichiarazione d'amore per la vita e l'infermieristica, profonda e leggera.
Come lo sono le piccole cose della vita normale che danno un senso ai giorni, anche quelli del lutto. Che ci danno la forza di affrontare il mondo, di tenere insieme quel che abbiamo anche se sono cocci, di volere un altro giorno ancora. Di sentire che non siamo qui solo per noi ma anche per gli altri. Di capire che le brave persone fanno cose buone per le altre persone e che alla fine questo è tutto per chi se ne va e per chi si lascia.
Anche gli operatori sanitari si ammalano e muoiono, come i pazienti. Abbiamo un destino condiviso. Come scrive Edward Christopher Dee, autore dell'articolo “Il riconoscimento della morte” pubblicato sulla rivista inglese The Lancet lo scorso 19 agosto, la morte arriva per tutti noi e, rispetto a chi è già ammalato e sta morendo, siamo separati da questa eventualità non per caso ma per il tempo.
Si impara a vivere riconoscendo la morte che è in fondo un tratto di realtà che gli operatori sanitari hanno il privilegio di testimoniare. Come recita la poesia sulla morte di Rilke: ma quando te ne sei andato, un filo di realtà irruppe sulla scena da quella fessura dove eri rimasto: verde di verde vero, vero sole, vera foresta
. Ecco, quella fessura ci appare spesso e se ci guardiamo dentro è possibile non avere più paura.
Richard Norton, direttore di The Lancet, sostiene che la medicina moderna ha aumentato la proporzione dei vivi che, ritardando la morte, occupano il limbo dove restano con prospettive lunghe di malattia. Che esiste una linea binaria artificiale che divide benessere e malattia. Che la salute è uno spettro nel senso che ci sono confini sfumati tra la malattia e la percezione di sentirsi sano nonostante una diagnosi.
Yessica diceva di sentirsi bene, mentre era nel suo limbo con il cancro. Respirava e lavorava, nonostante i drenaggi e le dispnee. E allora penso che non è strano, in fondo, scegliere una divisa da infermiere piuttosto che un abito di seta e chiffon. Del resto, durante la commedia esistenziale che è la vita, nel lavoro recitiamo una parte importante. Il copione è un po' uguale per tutti, ne siamo interpreti e registi, liberi di creare la vita come ci piace e di renderla il più possibile brillante. Poi moriamo tutti, anche se non oggi.
Dopo una morte inizia l'elaborazione del lutto e ciascuno si arrangia come meglio può, anche se bisogna passare per tutte le fasi psicologiche prima di tornare a stare decentemente meglio e poi ad andare avanti senza sentirsi in colpa per aver superato il dolore e tornare a sentirsi vivi. I tempi e i modi di guarigione sono variabili. Io faccio ancora fatica ad affrontare la morte e i funerali. Salto dopo in cimitero, il luogo fisico dove la morte forse mi fa meno male o dove lo strazio, mio e soprattutto quello degli altri, è meno visibile.
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