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8 marzo

La forza delle donne

di Giordano Cotichelli

Ho cercato l’articolo scritto in occasione dell’8 marzo 2020, per non ripetere cose già dette. Non l’ho trovato. Era già iniziata, da qualche giorno, la pandemia e l’8 marzo è stato “festeggiato” con il DPCM che chiudeva la Lombardia e 14 province a Nord. Un segno dei tempi di allora e di quelli di oggi. È passato un anno e la situazione continua ad essere decisamente seria. Per comprenderla si possono prendere in considerazione le donne, i loro diritti, che sono diritti di tutti, in un viaggio lungo 366 giorni, che le donne hanno percorso ed ancora stanno percorrendo.

La festa supera la scadenza del giorno e diventa "lotto tutti i giorni"

Un anno di lavoro di genere che le ha viste pressate dal crescere esponenziale dei problemi. Al doppio lavoro di “prima”, quello retribuito – male e poco - e quello domestico, se n’è aggiunto un terzo, quello di docenti domestiche di una DAD che ha sottolineato come la scuola non sia uguale per tutti.

E si è aggiunto anche un quarto lavoro, quello di psicoterapeute coscritte – non per questo meno efficaci e coinvolte - di conviventi lasciati in casa dal lockdown, dai licenziamenti, dalla fine del lavoro. Conviventi che troppo spesso hanno trovato nelle donne, nel loro corpo, l’occasione per mostrare la loro vigliaccheria e brutalità.

Uccise o maltrattate, umiliate o vessate, le vittime della violenza di genere non sono riuscite a trovare la stessa eco concessa a chi per mesi ha urlato alla dittatura sanitaria ed ora, con militari, tecnici e figuri già sfigurati in precedenti governi, tacciono.

Durante questi mesi di pandemia, il volto delle donne, molto spesso vestite dei DPI sanitari, ha riempito muri e strade, veicolando messaggi augurali per resistere all’emergenza in atto. Qualcuna è stata premiata per il coraggio dimostrato, icona involontaria di un tempo fatto di troppi eroi e troppi martiri.

A quelle che sono state chiamate a presidiare festival e cerimonie, fanno eco però le tante anime perdute che non ce l’hanno fatta: colpite dal male, stroncate dal duro lavoro, in fuga da una realtà troppo grande per loro; per le donne, come per gli uomini, tutte vittime allo stesso modo.

E ancora le donne, simbolo degli ultimi, di quelli che tirano avanti sperando che vada tutto bene, nonostante tutto. Sono le stesse che entrano in azione ogni giorno e in ogni dove, e che sanno di scienza, lungo parole e mondi declinati al femminile, ma troppo spesso ostacolati dai giochi di palazzo, di potere, di ceto e di profitto, riverberi maschili di gerarchi falliti.

Le donne quali indicatori sociali di diseguaglianze diffuse e misoginie strutturali, ancor più all’interno del mondo sanitario in cui gli uomini medico sono chiamati dottori, mentre le donne medico restano… signore.

Nulla di strano dato che c’è qualcuno che continua ad affermare come la scienza dell’infermieristica sia “naturalmente femminile”, per poi scoprire che, la presenza maschile si colloca “naturalmente” e numericamente alta, nei posti di potere, anche all’interno dell’infermieristica

Torna argomentata, da chi non ha argomenti ma solo interessi privati, la stantia balla della naturalità dei compiti femminili. Una pessima scusante per segregare, specie all’interno della famiglia, donne libere e lavoratrici, al fine di giustificare l’ennesima espulsione da un mercato occupazionale in cui si aprono spazi e prospettive solo per i maschi dominatori.

È l’espressione schietta di quella visione del mondo di chi ama governare… come un bravo papà, in una cultura tanto vuota quanto abituata a vuotare le casse delle risorse degli altri.

Il genere è, e deve essere, chiave di lettura di questa società, capacità di farsi relazione, di costruire reti – e ponti – superando e abbattendo muri, in cui al giallo delle mimose si unisce anche il verde dei fazzoletti delle argentine che hanno ottenuto il riconoscimento di vivere liberamente la loro scelta di essere, o non essere, madri.

Un diritto che, in Italia, viene continuamente messo in discussione e ostacolato da meschine coscienze che obiettano, e da altrettanto meschini in cerca di voti facili da prendere sul corpo delle donne, come su quello degli ultimi, dei migranti, dei vecchi, dei malati.

Donne dunque, come capro espiatorio di una declinazione tutta maschile, anche quando fatta da donne di potere, cui si contrappone una ribellione tutta femminile, anche, quando sostenuta da uomini senza potere. I numeri, come sempre, non lasciano spazi a dubbi di sorta.

All’inizio del 2020 l’occupazione femminile si attestava di 20 punti al di sotto di quella maschile, per peggiorare poi, a fine anno, con un numero di posti di lavoro perduti, a carico delle donne, pari a 99.000 su un totale di 101 mila.

In totale nell’anno della pandemia dei 444 mila posti di lavoro persi il 70% erano di donne. Numero percentuale uguale a quello degli infortuni registrati dall’INAIL su una totalità di 147.875 denunce. In un quadro salariale continuamente dominato da un gap di almeno il 20% in meno rispetto a quello annualmente percepito dai maschi. E come se non bastasse, l’Istat ha da poco rilevato un aumento della povertà assoluta a causa della pandemia, al cui interno, va ricordato, la dimensione di classe e di genere si strutturano in un legame socialmente iniquo quanto drammatico.

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