Le linee guida internazionali raccomandano una gestione mirata della temperatura al fine di prevenire il danno cerebrale ipossico-ischemico nei pazienti con coma dopo un arresto cardiaco. Per questo motivo, la gestione mirata della temperatura è raccomandata dopo un arresto cardiaco, ma le prove a suo sostegno sono di scarsa certezza. Al fine di esplorare meglio questo particolare aspetto è stato condotto lo studio TTM2, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati sul New England Journal of Medicine.
Ipotermia mirata contro normotermia dopo arresto cardiaco extraospedaliero
Le evidenze a sostegno della gestione della temperatura target hanno avuto origine da studi condotti su pazienti che erano stati rianimati da un arresto cardiaco extraospedaliero di presunta causa cardiaca e presentanti ritmi iniziali defibrillabili. I risultati derivanti da questi studi hanno suggerito un aumento della sopravvivenza e un miglioramento dell’esito neurologico nei pazienti sottoposti a ipotermia controllataa 33°C. Inoltre, un recente studio che ha coinvolto pazienti che hanno presentato un arresto cardiaco con ritmo iniziale non defibrillabile ha mostrato esiti neurologici migliori con un’ipotermia mirata a 33°C rispetto alla normotermia mirata a 37°C.
Sebbene le linee guida raccomandino fortemente una gestione mirata della temperatura con un obiettivo costante tra 32°C e 36°C, le stesse affermano anche che l’evidenza complessiva è di scarsa certezza.
Di certo, invece, c’è che la febbre è stata proposta come fattore di rischio per un esito neurologico sfavorevole dopo l’arresto cardiaco, sebbene tuttora non sia noto se esista una relazione causale e modificabile.
Per questi motivi è stato condotto uno studio esplorante l’ipotermia mirata randomizzata rispetto alla normotermia mirata dopo un arresto cardiaco extraospedaliero (TTM2) al fine di valutare gli effetti benefici e dannosi dell’ipotermia rispetto alla normotermia e al trattamento precoce della febbre nei pazienti dopo un arresto cardiaco.
I risultati ottenuti da questo studio contrastano con i risultati di studi pubblicati nel 2002, nei quali è stato riportato un beneficio dell’ipotermia. Da quel momento si sono verificati dei cambiamenti negli standard di terapia intensiva che possono aver influenzato gli effetti dell’intervento.
Altre spiegazioni di questa diversità sarebbero essere un minor rischio di bias nell’attuale studio e un minor rischio di errore casuale con una dimensione del campione che era cinque volte rispetto all’arruolamento combinato degli studi precedenti. Sebbene la popolazione di pazienti studiati differisse in qualche modo da quella degli studi precedenti, le analisi di sottogruppo indicano che è improbabile che diversi criteri di ammissibilità spieghino la discordanza.
I risultati sono però coerenti con quelli di un recente studio in cui l’ipotermia a 33°C, rispetto alla normotermia a 37 °C, in pazienti con ritmi non defibrillabili, non ha dimostrato di ridurre la mortalità. Tale studio ha indicato che l’ipotermia può migliorare gli esiti funzionali, ma questo risultato era basato su un piccolo numero di eventi e non è stato replicato nel sottogruppo di pazienti con ritmo iniziale non defibrillabile nel nostro studio.
I risultati dell’attuale studio sono ampiamente coerenti con i risultati del precedente studio TTM e i risultati combinati dei due studi implicano una bassa probabilità di qualsiasi miglioramento clinico significativo con l’ipotermia rispetto alla normotermia.
È fisiologicamente plausibile che l’intervallo tra un evento cardiaco e l’inizio dell’ipotermia sia correlato ai potenziali benefici dell’intervento, ipotesi questa supportata da esperimenti condotti sugli animali. In questo studio i pazienti sono stati raffreddati a una velocità simile o superiore a quella della maggior parte degli studi precedenti. Poiché tutti i centri partecipanti avevano precedenti esperienze con l’uso dell’ipotermia e un’ampia percentuale dei pazienti è stata sottoposta a randomizzazione presso i centri di arresto cardiaco, i tassi di raffreddamento osservati sono stati probabilmente più veloci di quelli fattibili nella pratica clinica attuale.
L’ipotermia, inoltre, non ha aumentato la frequenza di polmonite, sepsi o sanguinamento, ma le aritmie che causano una compromissione emodinamica erano più comuni nel gruppo ipotermico rispetto al gruppo normotermico. Le possibili ragioni di ciò includono disturbi elettrolitici, stato del fluido e un effetto della temperatura sui miociti cardiaci.
I risultati erano coerenti tra l’esito oggettivo della morte per qualsiasi causa, l’esito funzionale riportato dal medico (misurato attraverso la scala Rankin modificata) e la qualità della vita correlata alla salute riferita dal paziente (misurata utilizzando la scala visuo-analogica EQ-5D-5L). L’ampia dimensione del campione, gli ampi criteri di ammissibilità e i numerosi ospedali e paesi rappresentati in questo studio aumentano la generalizzabilità dei risultati.
In conclusione, i pazienti in coma dopo un arresto cardiaco extraospedaliero che sono stati trattati con ipotermia non hanno avuto una minore incidenza di morte a 6 mesi rispetto a quelli che sono stati trattati con normotermia.
Commento (0)
Devi fare il login per lasciare un commento. Non sei iscritto ?