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Torino, infermieri di Pronto soccorso: lavoro da suicidio

di Redazione Roma

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Dopo la sentenza di condanna a otto mesi di reclusione per omicidio colposo comminata a un infermiere 35enne dell’ospedale San Luigi di Orbassano, i suoi colleghi, pur non entrando nel merito del lavoro della magistratura, esprimono vicinanza all’uomo. Ricordando: Ecco come ci si ritrova a dover svolgere la funzione di triage registrando, mediamente, 85 persone ogni turno di lavoro.

Pronto soccorso, gli infermieri: noi siamo le vittime, non i colpevoli

Non vogliamo entrare nel merito del lavoro della magistratura che farà il suo corso nei differenti gradi di giudizio. Meno che mai, intendiamo mancare di rispetto a chi ha perso la vita ma è nostra intenzione testimoniare come, quotidianamente, ogni infermiere che si trovi nelle medesime condizioni corre questo rischio per un sistema che non assicura, oramai da tempo, condizioni accettabili in grado di poter lavorare in sicurezza.

Parole di Francesco Coppolella, segretario Nursind Piemonte, il sindacato che ha organizzato un flash mob di protesta con cartelli (Noi siamo le vittime, non i colpevoli), iniziativa a cui ha fatto seguito una missiva scritta dall’infermiere dell’ospedale San Luigi di Orbassano (Torino), Luca Zannotti, ed inviata a tutti i colleghi che lavorano all’interno del Pronto soccorso.

I sanitari esprimono vicinanza all’infermiere 35enne per il quale si è appena concluso il processo che lo ha portato davanti al giudice in relazione alla vicenda del 63enne deceduto al Pronto soccorso del “San Luigi” a causa di un aneurisma dell’aorta addominale – era il 2019 – dopo che lo stesso professionista sanitario del triage lo classificò come codice verde per tre volte. A nulla valsero l’insistenza e l’apprensione del figlio del paziente (assistito dall’avvocato Alessandro Bellina che ha presentato l’esposto da cui sono partite le indagini). Oggi l’infermiere, difeso dagli avvocati Gino e Pietro Obert, è stato condannato a otto mesi di carcere (con sospensione condizionale della pena) per omicidio colposo.

L’accusa nel processo è stata sostenuta dal pm Giovanni Caspani della procura di Torino, che ha sostenuto che da parte del professionista sanitario vi fosse stata negligenza, in quanto anche la semplice assegnazione di un codice giallo avrebbe ridotto il tempo di attesa a soltanto 20 minuti, mentre in quel caso questa fu di sette ore. Nel marzo di tre anni fa, il 63enne si era presentato alle 14:30 lamentando forti dolori inguinali. Era accompagnato proprio dal figlio. Il codice verde era stato confermato per tre volte, nonostante le sue richieste. Alle 21:15 era stato visitato e trasferito al reparto di chirurgia vascolare dove era poi deceduto per un aneurisma dell’aorta addominale, lasciando la moglie e i due figli.

E oggi, i colleghi dell’infermiere condannato a otto mesi di reclusione per omicidio colposo, pur non volendo in alcun modo interferire con la giustizia, lamentano: Continuare a lavorare in Pronto soccorso, a queste condizioni, è una missione suicida. Rammentando, oltremodo, che oramai il Pronto soccorso ha sostituito la medicina territoriale ed è aumentato in modo importante il numero di persone che si rivolgono ai Dea, i Dipartimenti di emergenza e accettazione, non riorganizzati con l’adeguamento delle nuove richieste della comunità – viene ancora fatto presente – come ad esempio l’implementazione del personale per turno, ma anche la creazione di percorsi alternativi.

Il risultato? Si fa presto a dirlo. Pazienti esasperati dalle lunghe attese e personale sanitario insufficiente. Ed ecco come ci si ritrova a dover svolgere la funzione di triage registrando, in media, 85 persone ogni turno di lavoro o a dover gestire l’irrisolvibile questione del boarding, l’accumulo dei pazienti nei Pronto soccorso per carenza di posti letto nei reparti di degenza, con un infermiere ogni 20 assistiti.

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