L’assistenza, come ci ricorda Marie Françoise Colliere, ha sempre riguardato sia la vita che la morte dell’individuo.
Nel processo di elaborazione del lutto, comunicare è importante. Probabilmente questo aspetto andrebbe maggiormente sviluppato nel corso di laurea triennale perché se ne parla sempre troppo poco. Tra le funzioni dell’infermiere vi è, infatti, quello di occuparsi del paziente morente, dei familiari e di aiutarli nell’elaborazione del lutto (Art. 24 – Codice deontologico dell’infermiere 2019 , Cura nel fine vita).
Parlare di morte e palliazione, tuttavia, è difficile e complesso e spesso non tutti i pazienti riescono ad accedere alla palliazione soprattutto per scarse conoscenze. Ogni gesto di cura dell’infermiere ha un fondamento scientifico e questo lo voglio gridare a gran voce, perché si comprenda che l’infermiere non è “quello che tiene la manina”, ma un professionista della salute.
L’infermiere si documenta, studia, mette in campo competenze tecniche, relazionali e, se necessario, ricorre alla consulenza e all’intervento di infermieri esperti (Art. 13 – Codice deontologico dell’infermiere 2019). In una realtà che enfatizza sempre più le competenze tecniche e cliniche, il contatto con il corpo, particolarmente valorizzato dalla fenomenologia di E. Stein e inteso come mezzo per entrare in relazione con l’altro, diventa fonte di un sapere , ahimè spesso dimenticato, ma che insieme al sapere scientifico invece può essere determinante nel comprendere e rispondere al meglio ai bisogni di salute del paziente.
Ero alle prime armi, avevo cominciato da poco a lavorare in una comunità di bambini disabili. Lavoravo lì da soli 6 mesi e la coordinatrice della comunità aveva chiamato tutto il personale per una riunione urgente. La coordinatrice ci disse che una famiglia aveva chiesto supporto alla nostra struttura per la presa in carico del loro bambino affetto da grave disabilità.
Si trattava di un bambino terminale che la famiglia non poteva gestire a casa. La coordinatrice disse che sarei dovuta andare io in ospedale a conoscere il bambino per prima. Rimasi turbata da quella riunione. Nella mia testa risuonavano le parole “terminale” e “bambino” due termini che non dovrebbero mai stare insieme. Pur avendo scelto questa professione, non avevo mai avuto esperienza con la morte e ancor più mi sembrava inconcepibile che quella parola venisse accostata alla parola bambino.
Chiesi alla coordinatrice se avesse pensato ad un supporto esterno alla comunità, perché l’équipe infermieristica non si era mai confrontata prima con il dover gestire una situazione simile; la coordinatrice mi rispose che aveva già preso contatti con un’associazione che si occupa di malati inguaribili fornendo cure mediche e infermieristiche di carattere palliativo. Il pediatra dell’associazione sarebbe venuto periodicamente a visitare il bambino e l’infermiere esperto in cure palliative pediatriche ci avrebbe affiancati in questo percorso.
Andai in ospedale a conoscere il piccolo Giorgio. C’erano i suoi genitori. Mi presentai e subito mi portarono in camera dal bambino. Era nel suo lettino tutto raggomitolato, un bambino minuto e anche se aveva 6 anni sembrava molto più piccolo della sua età. Aveva una benda di protezione per l’accesso venoso sulla mano, una medicazione a livello occipitale e una PEG.
Lo salutai con un: Ciao piccino, io sono l’infermiera che si prenderà cura di te . Mi guardò e poi il padre mi interruppe. Disse che il piccolo Giorgio non parlava, che non poteva rispondermi, ma che capiva molto bene. Chiesi loro quali problemi di salute avesse Giorgio. Mi raccontarono che il bambino era nato con la Sindrome cardio-facio-cutanea (CFC), una malattia talmente rara che la diagnosi era stata fatta negli Stati Uniti. La problematica principale del bambino era l’epilessia : aveva crisi epilettiche dalla nascita e ora il bambino era diventato farmaco-resistente.
Non rispondeva più ai farmaci per il controllo delle crisi epilettiche . A dicembre aveva avuto una crisi dopo l’altra e a gennaio era entrato in uno stato di male epilettico, tanto da indurre i medici a metterlo in coma farmacologico. Il bambino, passata la fase acuta, era molto peggiorato e i medici avevano detto ai genitori in maniera molto esplicita che non potevano fare più nulla per Giorgio se fosse entrato in un nuovo stato di male.
I genitori avevano chiesto quindi un ricovero alla nostra comunità perché spaventati da questa sentenza. Tornata a casa mi documentai sulla CFC e trovai che oltre all’epilessia e a una facies caratteristica, comportava problemi cardiologici, cutanei (cute facilmente desquamabile), ritardo a livello motorio, cognitivo e disfagia (il bambino per questo motivo si alimentava tramite PEG).
Cercai fino a notte fonda su come poter fare del mio meglio per quel bambino . Qualche giorno dopo aver predisposto la sua cameretta con tutto quello che poteva servire (pompa per nutrizione enterale, fonte dell’ossigeno, materiale per la gestione della PEG e i suoi farmaci), andai a prenderlo in ospedale.
Lo portai in braccio, durante il viaggio in ambulanza mi sentivo addosso una grande responsabilità. Nei giorni successivi vennero a conoscere il bambino sia la pediatra che l’infermiera esperta. A quest’ultima in particolare chiesi tantissime cose. Ci sedemmo a parlare. Le raccontai che non mi ero mai occupata di un paziente terminale e mi diede tanti consigli.
Mi disse che Giorgio, pur nella malattia, era sempre un bambino e che bisognava continuare a farlo giocare e a stimolare i suoi sensi. Nei mesi a seguire trattai il piccolo Giorgio come un bambino normale e non come un paziente terminale. Mi presi cura di lui non solo attraverso le cure di carattere più tecnico, come la somministrazione dei farmaci e il monitoraggio dei parametri vitali, ma anche attraverso cure più corporee come il bagnetto, che era diventato un momento di gioco per il bambino.
Un giorno lo sentivo particolarmente sofferente, il bambino si lamentava ma non capivo il perché. Pensai di prendermi un momento solo per lui, somministrai le terapie agli altri bambini e poi dedicai il resto del turno a Giorgio. Preparai la vasca per il bagno e aprii il rubinetto. Prima gli feci sentire il calore dell’acqua con le manine, poi, quando vidi che era pronto, lentamente immersi i piedini, le gambe e il resto del corpo. Il bambino sentendo il calore dell’acqua sembrava più tranquillo.
Lo asciugai e poi ebbi un’intuizione: pensai che un massaggio potesse farlo sentire al sicuro e forse poteva dargli sollievo. Lo portai nella sua stanza, la luce era soffusa, l’ambiente abbastanza caldo e adeguatamente tranquillo. Scaldai le mani e le poggiai sul suo viso. Giorgio diresse lo sguardo verso il mio. Catturai la sua attenzione. Lasciai scivolare le mani dal viso verso le braccia e notai che il tono muscolare a mano a mano che lo toccavo si riduceva. Sentivo che il bambino si rilassava grazie al mio tocco. Continuai a massaggiare quel corpicino minuto finché Giorgio non si addormentò.
Rimasi sorpresa di come una cosa così semplice potesse avergli dato sollievo. Nei giorni successivi le crisi arrivarono una dopo l’altra. Il sistema cardiocircolatorio cominciava a fare fatica e questo gravava sulla funzione respiratoria. Fu necessario somministrargli l’ossigenoterapia e la morfina per ridurre il lavoro cardiaco. Giorgio non aveva più molta coscienza di quello che accadeva. Nei turni notturni, quando non ero troppo impegnata con gli altri bambini, lo prendevo in braccio e lo cullavo. Passai intere notti a tenerlo stretto, al sicuro, per fargli sentire in qualche modo la mia presenza. Non so se riuscisse a sentirmi. Giorgio peggiorò ulteriormente e una mattina cominciò a diventare livido.
Sapevo cosa volesse dire e avvisai il medico e i genitori. La dottoressa venne subito, lo visitò e mi disse che Giorgio non avrebbe superato la mattinata. I genitori arrivarono, gli spiegammo la situazione insieme al medico.
La madre tratteneva le lacrime, sapeva che quel momento prima o poi sarebbe arrivato ma non si è mai pronti alla morte di un bambino, ancora meno alla morte del proprio figlio.
Il padre stringeva affranto le mani della moglie e del piccolo. Volevo poter fare qualcosa, così dissi ai due che potevano tenerlo in braccio insieme e cullarlo. I genitori mi guardarono meravigliati e mi chiesero: Ѐ possibile? Non ha troppi tubicini? Non vorremmo fargli più male .
Gli risposi che era assolutamente possibile. Sistemai la PEG, rimossi la prolunga che si usa per somministrare i farmaci e la nutrizione enterale, staccai la flebo di idratazione, sistemai meglio la mascherina sul viso del bambino e avvolsi il corpo del piccolo Giorgio in un lenzuolino perché le sue mani e i suoi piedi erano diventati freddi. Lo misi nelle braccia della madre, subito si rannicchiò e la sua smorfia di dolore sul viso svanii.
Alla madre scese una lacrima e anche il padre si avvicinò. Capii che era un momento molto delicato e decisi di uscire dalla camera. Dissi ai genitori che potevano restare con Giorgio per tutto il tempo che desideravano e che sarei rimasta lì vicino per qualsiasi cosa. Gli lascia lo spazio fisico ed emotivo di poter stare con lui senza lasciarli completamente soli. Il mio turno finì e affidai i genitori e il bambino alle cure della mia collega. Prima di andare salutai i genitori e il piccolo. Lo accarezzai, cosciente che quello sarebbe stato il nostro ultimo saluto.
Nelle cure date non è mai stato perso l’aspetto più umano: il piccolo paziente è visto come un essere umano capace di sentire, un bambino che, in quanto tale, deve ancora poter giocare. Cullare il bambino quando la sua percezione del mondo esterno era ridotta e avvolgerlo nel lenzuolo per darlo in braccio alla madre, sono due azioni attraverso cui si cerca di comunicare sicurezza al bambino e che riprendono la teoria del contenimento (Holding) di Winnicott, noto pediatra e psicoanalista; l’holding non ha solo lo scopo di contenere il corpo ma anche la sua mente, il suo dolore e la sua angoscia.
Prendere in braccio il bambino, stringerlo e cullarlo ha lo scopo di comunicare, di creare quello che in fenomenologia viene definito “attunement” (sintonizzazione) e che consente di empatizzare e conoscere profondamente il bisogno del bambino senza il linguaggio verbale.
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