Ancora lo stereotipo dell’infermiera che ama e cura il militare
Pierfrancesco Favino, nel film Comandante di Edoardo De Angelis, interpreta l'ufficiale di marina Salvatore Bruno Todaro.
Una pellicola di pace, dunque, che parla da un lato, del dovere da assolvere, sempre presente nella vita di ogni uomo, e rappresentato dal contesto militare, mentre dall’altro ci sono i sentimenti che prevalgono, l’etica del mare che lega chiunque in mezzo alle onde in una unica famiglia umana.
Un messaggio quasi esplicito verso chi vorrebbe blocchi navali, affondamenti di navi onlus ed altre baggianate antiumane, ma elettoralisticamente paganti.
Come prodotto, il film offre una storia che riesce a tenersi e a condurre gli spettatori nella narrazione degli eventi, sostenuta da una recitazione dei vari attori, mai stanca e sempre attuale – e professionale - sul fotogramma da fissare. Nonostante tutto, non poche sono state le polemiche per un lavoro che, nella sua globalità, alla fine sembra non convincere , mentre solleva molteplici interrogativi.
Diversi hanno sottolineato come venga rappresentato il consueto stereotipo degli “italiani brava gente” i quali fanno le guerre, ma alla fine sono più buoni di tanti altri. Insomma, la nostra guerra, anche se fascista, era meno cattiva di quella dei tedeschi, degli ustascia croati, e di tanti altri popoli barbarici che non hanno come noi duemila anni di storia sulle spalle. Affermazione che Todaro, quello vero, rivendicherà di fronte ai comandi tedeschi che gli rimprovereranno il suo comportamento poco bellicistico.
A ragion del vero va detto che se la legge del mare vale per i sommergibilisti italiani, dovrebbe valere anche per tutti gli altri. E la storiografia della Seconda guerra mondiale, ad esempio, ci riconsegna la figura del comandante Bernhard Rogge della nave corsare tedesca Atlantis che affondava gli scafi nemici e poi, sistematicamente, ne salvava gli equipaggi.
E poi per sapere se veramente noi italiani siamo brava gente, in guerra, dovrebbero essere gli altri ad affermarlo: gli jugoslavi, i greci, gli albanesi, gli ucraini, gli spagnoli, i libici, i somali, gli etiopi e gli eritrei, e tutti coloro cui siamo entrati in casa in uniforme ammazzando, incendiando, stuprando e rubando seguendo le leggi insite in ogni guerra.
Se poi si vuole considerare davvero “Comandante ” un film di pace, questa affermazione cozza con la scena tutta muscolare e testosteronica del film che vede un’azione di guerra contro un caccia nemico con il sottofondo musicale dell’inno dei sommergibilisti le cui strofe – che per essere belle so’ belle, per carità – ad un certo punto recitano: Colpir e seppellir ogni nemico che s’incontra sul cammino .
Passaggio che stride dunque un po’ con le parole pronunciate dal personaggio del comandante, il quale afferma: Noi affondiamo il ferro nemico senza pietà, ma l’uomo no, l’uomo lo salviamo . Una contraddizione? Affatto.
È l’espressione dell’eterno conflitto fra uomo e sistema , fra eroismo individuale ed organizzazione istituzionale, fra colui che indossa una divisa e la divisa che viene indossata. Non è questa però la sola chiave di lettura del film, ma c’è anche quella legata agli stereotipi militari e maschili presenti in abbondanza , da quelli nazionali fra mandolini suonati e cucine dei miracoli a quelli di genere che mostrano la donna raffigurata nella peggiore rappresentazione di sempre : oggetto di desiderio e piacere per i maschi, strumento che scatena nostalgie e poesie, porto sicuro dove tornare e senso della vita per cui lottare.
In pratica un arretramento culturale di decenni, se non di secoli . La moglie del comandante viene raffigurata, quasi idealizzata, in alcuni passaggi, nuda con in testa il cappello da ufficiale del marito. Pessima scelta della sceneggiatura? Sul piano culturale – e politico (si può dire?) – indubbiamente, che si affianca alla rappresentazione del saluto ai marinai, che si stanno imbarcando, ad opera di tre infermiere, in apprensione amorosa, dopo essersi generosamente concesse a chi, forse, non tornerà più.
Una retorica militaresca, maschile e bellicista che decisamente non rende onore né alla storia narrata, né all’attualità dell’oggi che dovrebbe rifuggire qualsiasi celebrazione della guerra visto che questa, la guerra , è sempre più presente nelle nostre vite di esseri umani.
E poi, viene da chiedersi: ma non si poteva fare a meno dello stereotipo dell’infermiera-donna che ama e cura il militare-uomo? E che addirittura si lamenta, Lei, di coloro che fanno un po’ troppo le ritrose? Si è voluto forse rappresentare la realtà infermieristica del tempo? Speriamo di no! Perché in questo caso la toppa sarebbe peggiore del buco da rammendare.
Non c’è stata guerra moderna in cui le infermiere non siano state considerate oggetto di conquista bellica o di sollazzo per i guerrieri del momento : dalle partigiane seviziate ed uccise dai fascisti, alle ausiliare della RSI, alle infermiere sovietiche impiccate dai prodi soldati nazisti, a quelle palestinesi morte per assistere ieri dei feriti nei territori occupati, come fu il caso di Razan Ashraf al Najjar, accaduto cinque anni fa, o come le tante altre rimaste vittime nei bombardamenti di Gaza oggi .
Se qualcuno di voi avesse qualche dubbio può cercare in rete tutti gli esempi che crede, non ultimo quello relativo alle infermiere argentine stuprate, dai loro stessi connazionali in divisa, durante la guerra delle Falkland.
Parole esagerate? Lecito pensarlo, ma difficile provarlo in quanto la pellicola stessa si apre con i maschi in divisa che marciano cantando “Un’ora sola ti vorrei”, ulteriore scelta della sceneggiatura decisamente discutibile relativa ad una canzone il cui testo rimanda alla dimensione nostalgico-amorosa di genere di cui si è detto, mentre allora, quando nacque, rimandava quasi ad una sorta di velata fronda antifascista contro l’uomo della provvidenza al comando.
Già, l’antifascismo! Pessima figura fanno i due antifascisti belgi che, pur essendo stati salvati dagli italiani, per ben due volte, rancorosi verso un esercito fascista ed un equipaggio che li ha affondati, cercano di sabotare lo stesso sottomarino. In un paio di battute, insomma, oltre le infermiere e le donne, anche l’antifascismo viene liquidato in nome di… già in nome di cosa?
Qual è il messaggio che alla fine la pellicola ha voluto trasmettere? Se ci si sofferma ancora un po’ su molti altri particolari che stridono, con la realtà pacifista e democratica – e antifascista – di questo paese, c’è il rischio di non riconoscere manco più le poche osservazioni positive colte nel film “Comandante” che, per tutto quello che si è scritto, e molto altro, non può non essere inserito nell’agenda degli appuntamenti cinematografici da non perdere.
Dimenticavo. C’è una terza canzone nel film: “O’ surdato ‘nnamurato”. L’interpretazione arricchisce di pathos le scene in cui è inserita, e non può non essere apprezzata. Certo, non è l’interpretazione, e nemmeno la stessa storia, che si ritrova nel film “La sciantosa”, con Anna Magnani e Massimo Ranieri, ma ci si contenta ugualmente.
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