Da pochi giorni è disponibile in libreria l’ultimo lavoro della scrittrice belga Caroline De Mulder: “I bambini di Himmler” . Un libro, già dal titolo, può innescare sensazioni forti e discordanti. Ci può essere chi, leggendo il riferimento al capo supremo delle SS – Heinrich Himmler – taglia corto e se ne scappa via, pensando al solito romanzo contro il nazismo, ambientato nella Seconda guerra mondiale, che parla di donne e bla, bla, bla. Roba vecchia e superata, e poi basta con tutto ‘sto parlare di nazismo e fascismo. E ci può essere invece chi, anche in questo caso, già dal titolo, intuisce che le 256 pagine scritte dalla De Mulder, prenderanno per mano il lettore per condurlo nella realtà storica di un passato in cui ci si sentirà testimone e protagonista allo stesso tempo, vittima e comparsa o, parafrasando Primo Levi, sommerso o salvato.
I bambini di Himmler, una storia narrata per narrare la storia
"I bambini di Himmler" di Caroline De Mulder
Il libro parla di una delle tante cliniche del Progetto “lebensborn” , letteralmente sorgente di vita, che fiorirono in Germania, ed anche in alcuni territori europei occupati dalle truppe naziste dove, ragazze madri e donne sposate, amanti dimenticate e ariane acquisite, tutte ritenute razzialmente pure, potevano mettere al mondo i figli in totale sicurezza, seguite e sostenute per tutta la gravidanza.
La Germania nazista aveva bisogno di uomini, di ariani di razza pura e quindi ogni donna tedesca in età fertile aveva l’obbligo di essere moglie, amante e soprattutto, madre feconda.
Il titolo originale del romanzo in francese è: “La pouponnière d'Himmler”, il vivaio di Himmler, e rende bene il portato dell’opera della De Mulder, che rimanda a qualcosa di strano, di ibrido, che molti, a guerra finita, etichettarono troppo rapidamente come dei semplici bordelli per le élite assassine dell’esercito del Reich millennario.
Capire tutto questo non è semplice, ma le narrazioni che si intrecciano nelle pagine del libro, ben costruite – e probabilmente in molte descrizioni ispirate a fatti realmente accaduti – aiutano.
In particolare risaltano le storie di tre protagonisti: Helga, Renée e Marek. Helga è una giovane infermiera tedesca, preparata e ligia al dovere, nazista quanto basta per poter essere una perfetta macchina assistenziale all’interno del delirante ordine hitleriano. Un’infermiera sempre presente con le sue pazienti, vicina alle madri che hanno partorito da poco, ai loro figli, e in grado di mantenere l’ordine strutturale della macchina sanitaria rappresentata dal reparto Maternità dell’Heim Hocland, presso il paesino di Steinhöring, distante una trentina di chilometri a est da Monaco. Ha tempo per prendersi cura dei bambini che devono nascere e di quelli già nati, delle madri sfinite dal parto e di quelle che invece rischiano di perdersi nelle spire orride del demone della depressione post-partum e di una società violenta che non ammette errori. Specie se femminili e pericolosi per la stirpe.
Una di queste è l’altra protagonista del romanzo: Renée, una giovanissima francese della Normandia che è arrivata all’Heim nell’estate del ’44 in fuga dalla Francia dove il fronte alleato sta avanzando. In fuga dai suoi stessi connazionali che le hanno rasato a zero i capelli per la colpa di essere stata l’amante di un soldato tedesco. Lei spera di trovare nel sud della Germania quella pace che la sua patria le ha negato. Spera di ritrovare, come molte donne, l’uomo che ha amato. L’uomo che l’ha lasciata.
E poi c’è Marek. È un prigioniero polacco che lavora come schiavo in una delle tante fattorie della zona; una fortuna per lui. Le condizioni sono pessime, il cibo scarseggia e la pulizia pure, ma per il momento è riuscito a stare lontano dal vicino campo di Dachau, e tanto basta. Mantenersi in vita prima di tutto. La fattoria dove lavora è vicino alla clinica e questo gli aprirà un mondo altro rispetto al campo di sterminio da dove proviene. L’ospedale da una parte e il campo dall’altra, lo spazio attorno a lui è fatto di istituzioni totali che sono pronte a stritolarlo nel momento in cui riuscisse a salvarsi dalla fatica che quotidianamente lo schiaccia verso l’abisso dell’orrore, della paura. Della fine.
“I bambini di Himmler” è un libro di tremenda attualità. Una storia narrata per narrare la storia e ricondurre all’oggi dove, nuovi sovrani autoproclamati, decidono per decreto che esistono solo due generi, o che chi è portatore di una difficoltà, di una disabilità, va definito con i termini di ritardato, idiota, imbecille.
È un libro che parla del corpo e dell’animo delle donne, dando loro dignità e soggettività, togliendole di mano a chi vuole farne solo un’oggetto di deliri politici, ideologici o semplicemente testosteronici.
È uno di quei romanzi, insomma, che leggi tutto di un fiato, ma non vorresti mai arrivare alle ultime pagine. Uno di quei libri di cui non ti interessa “come va a finire”, perché vuoi che ti prenda per mano portandoti altrove a vivere gli animi sofferti e dignitosi dei suoi personaggi, a sentire il fluire delle loro vite vissute che, ancor più, riverberano nelle ultime pagine del testo dove, opportunamente, c’è una piccola rassegna bibliografica di lavori storici sul delirio nazista dell’eutanasia di stato e della purezza della razza. Un libro, purtroppo, sotto molti aspetti, di tremenda attualità. Buona lettura.
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