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salute mentale

I servizi di salute mentale tra recovery e resilienza

di Carlo Scovino

I presupposti epistemologici su cui si articolano entrambi i concetti riportati nel titolo considerano la salute mentale un bene intangibile che contribuisce alla costruzione del capitale sociale della comunità territoriale permettendo di organizzare processi di cittadinanza basati sul sostegno allo sviluppo di tutte quelle competenze psico-socio-economiche che abilitano i cittadini alla collaborazione reciproca e alla mutualità, per meglio comprendere il mondo in cui viviamo e per poter incidere in modo sempre più attivo sulla complessa realtà che ci circonda.

Sviluppo di processi di recovery e resilienza per la salute mentale

Tutti gli stakeholder coinvolti devono partecipare attivamente ai trattamenti orientati alla recovery

La definizione più accreditata di recovery afferma che essa è un processo profondo e unico di cambiamento delle attitudini, valori, sentimenti, obiettivi, abilità e ruoli. Sentirsi realizzati vivendo una vita soddisfacente, piena di speranza nonostante le limitazioni causate dalla malattia. Recovery comporta lo sviluppo di nuovi significati e apprendimenti nella vita di una persona che cresce e si sviluppa oltre gli effetti catastrofici della condizione patologica.

Il termine, in realtà, non possiede un esatto equivalente nella lingua italiana e non è semplicemente traducibile con la parola “guarigione”, ma piuttosto con forme verbali riflessive quali ad esempio il verbo “riappropriarsi” o “riaversi”.

A differenza del verbo guarire, “recovery” implica un’idea di processo, di percorso evolutivo e di “viaggio” personale che riguarda l’intera vita della persona. Non si tratta di un ritorno ad una condizione precedente l’insorgere del disturbo, intesa come remissione dei sintomi psicopatologici e/o di funzionamento sociale, ma di un processo di cambiamento personale e di riappropriazione del controllo sulla propria vita, di rafforzamento di una attitudine positiva rispetto ad una propria progettualità attraverso l’accesso alle opportunità sociali, allo sviluppo di nuove abilità e competenze, all’avere potere contrattuale e all’essere responsabili nella cura di se stessi.

Nel Piano di Azione Globale per la Salute Mentale 2013-2020 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si legge è importante offrire trattamenti orientati alla recovery in cui sia prevista la partecipazione attiva di tutti gli stakeholder coinvolti, al fine di offrire alle persone la possibilità di vivere una vita piena a produttiva all’interno della comunità.

La salute mentale è definita come bene intangibile è classificabile con un bene relazionale in quanto comune ad una rete di relazioni sociali e individuabile in base alla presenza o assenza delle proprietà di condivisione nel consumo e di collaborazione nella fruizione tipiche della classificazione del bene comune con un terzo genus rispetto alle tradizionali categorie del bene privato e del bene pubblico del consumo. I servizi dedicati al bene comune salute mentale non possono che essere basati sulla dimensione comunitaria e da questo ne consegue che non è possibile pensarla epistemologicamente se non come di comunità.

Il contesto sociale che può fungere da dispositivo (che consente di meglio tollerare la complessità) per lo sviluppo di processi di recovery e resilienza può essere considerato come un vero e proprio dispositivo di intervento comunitario fondato sulla naturale articolazione gruppale delle relazioni umane presenti nell’ambiente nel quale si sviluppano.

Il processo di recovery e di resilienza che si sta promuovendo nei servizi psichiatrici territoriali ha promosso una straordinaria riflessione da parte di tutte le figure professionali sulla possibilità di trasmissione ed elaborazione della speranza di guarigione e/o di benessere come componente essenziale di ogni processo terapeutico-riabilitavo.

Inoltre, tale processo ha dimostrato gli ampi e vari modi con cui le persone affrontano i problemi di salute mentale e quanto diversificati siano i supporti possibili. Il tentativo è quello di ricondurre al sociale e all’umano i temi della malattia e della salute mentale.

Tale processo di ridefinizione non è ancora concluso e lo sforzo sistematico che viene richiesto necessita di un tempo difficile da definire a priori: tutti gli operatori dei servizi devono modificare l’impostazione del processo di cura che sin dall’inizio appare essere basata sull’assunzione del rischio piuttosto che sull’ evitamento metodologico, sull’esercizio dei diritti piuttosto che sulla loro sospensione.

L’evoluzione del concetto di salute mentale

Se si analizza l’evoluzione del concetto di salute mentale non si può evitare di arrivare a pensarlo come concetto e orizzonte i cui contorni vengono sempre spostati dall’azione umana in relazione alle vicende politiche, sociali e culturali di un’epoca.

Prima che in Europa si affermasse pienamente la moderna società di massa, nel periodo di massima egemonia del modello manicomiale, il sistema appariva rigido e dualistico: la salute da una parte, la malattia dall’altra parte. La Salute Mentale coincideva con la totale assenza di malattia. In questa concezione l’unica guarigione possibile era quella con restitutio ad integrum: la guarigione con difetto non era una vera guarigione, non ripristinava affatto la salute e si limitava a registrare la cronicizzazione della malattia.

Il diritto del paziente di sbagliare implica uno spostamento di focus dal modello di una malattia da curare e poi riabilitare a quello di una nuova vita da continuare a vivere: un processo terapeutico-riabilitativo fondato sul sostegno all’accesso a tutte le nuove opportunità di vivere, lavorare e partecipare alla vita sociale della propria comunità di appartenenza.

Molte persone con disturbi psichiatrici sono state abituate dagli operatori a “ricevere” aiuto e a lasciare che altri prendano le decisioni al loro posto e così si sentono di non avere molto da condividere e da trasmettere agli altri, mentre invece sono proprio gli utenti le persone maggiormente competenti nell’affrontare, descrivere e prendersi cura delle situazioni di disagio mentale.

Attivare relazioni a doppia direzione (si dà e si riceve), serve non soltanto a sviluppare senso di agency e autostima al livello individuale, ma a anche a combattere lo stigma a livello sociale. Il contesto di povertà e di esclusione dalle risorse materiali e da opportunità quali l’istruzione, il lavoro e robuste reti sociali può sia aggravare che interagire con l’emarginazione, l’invisibilità e la “visibilità distorta” della malattia mentale.

Disoccupazione e povertà sono sicuramente stressanti: il contesto socioeconomico in cui vivono molti utenti deve essere considerato un focus di studio, su cui l’utente stesso è informatore privilegiato, al fine di programmare al meglio i servizi dedicati alla salute mentale. La filosofa Martha Nussbaumn sostiene che dovremmo assomigliare più a una pianta che a un gioiello, qualcosa la cui bellezza non può essere separata dalla propria fragilità: le storie, anche quelle di malattia, fanno emergere le fragilità umane e proprio per questo fanno provare un senso di insoddisfazione o frustrazione.

La Nussbaum sostiene che sono proprio le circostanze in cui improvvisamente si deve scegliere a offrire quelle occasioni in cui farsi resilienti. La riuscita/successo della resilienza con il suo continuo rievocare esperienze individuali e collettive contribuisce a dare senso alla fragilità umana.

La teoria della resilienza

La teoria della resilienza si può ricostruire in una filogenesi ancorata a tante storie reali raccolte nelle ricerche e via via arricchirsi attraverso la fantasia di ulteriori storie che si sono tramandate oralmente in molti luoghi e che da sempre raccontano come sia possibile ricostruirsi dopo un evento drammatico o rispetto alle difficoltà di una quotidianità deprivante.

Le identità delle persone resilienti si nutrono e si sviluppano servendosi di alcuni meccanismi quali l’umorismo, l’ironia, la creatività, la capacità di relazione, la perspicacia, l’autonomia e un certo senso morale. Boris Cyrulnik (neuropsichiatra e etologo francese, direttore dell’Osservatorio Internazionale sulla Resilienza) afferma, in tutti i suoi libri, che nell’avvio del processo di resilienza è determinante la risposta che si riceve dall’ambiente: esso e la cultura che lo caratterizza può rimodulare gli elementi di una storia per riposizionarli in un ordine fuori dal caos capace di aprire al possibile e senza dare scontate situazioni apparentemente senza risorse e votate al fallimento.

Nelle epoche e nelle varie culture la resilienza è apparsa e si è manifestata come un processo possibile per modificare un racconto di vita, per avviare una metamorfosi del sé capace di riorientare una traiettoria esistenziale in positivo utilizzando le risorse disponibili, se pur scarse. L’attitudine alla resilienza che viene richiesta agli operatori che lavorano nei servizi per la salute mentale richiede una significativa capacità di dare un senso a ciò che è accaduto, la gestione delle emozioni e il mantenimento di un sufficiente livello di autostima anche in condizioni complesse e articolate come quelle relative al coping di una patologia psichiatrica.

La resilienza, secondo gli ultimi studi, è definita come una forza, un’attitudine che ognuno in parte possiede ma che può altresì essere influenzata dall’ambiente (sociale, culturale e relazionale). Questo approccio considera anche i più recenti studi delle neuroscienze sulla plasticità del cervello, sulla sua flessibilità e adattamento in vari stadi della vita.

Inoltre, tali ricerche sono in linea con molti studi sociologici che analizzano il ruolo attivo/passivo delle persone di fronte ai poteri sociali e culturali, i quali pur non occupandosi direttamente di resilienza, offrono dei costrutti interessanti per rileggere il ruolo della resilienza nelle traiettorie della vita.

Le linee di ricerca rivolte alla prevenzione del disagio psichico danno grande enfasi ai fattori di protezione, ossia quelle risorse esterne – relazioni affettive, istituzioni sociali e culturali - in grado di attivare e sostenere un percorso di resilienza mitigando gli effetti di situazioni sfavorevoli. Se il welfare aveva insistito sui fattori di rischio che la società avrebbe dovuto contrastare, il nuovo corso scopriva il valore della resilienza, della competenza di azione e di fronteggiamento insita nella quotidiana lotta della persona per la difesa della propria salute mentale. Se si analizza l’evoluzione del concetto di salute mentale non si può evitare di arrivare a pensarlo come concetto/limite e orizzonte i cui contorni vengono sempre spostati dall’azione umana in relazione alle vicende politiche, sociali e culturali di un’epoca.

Nonostante senza ombra di dubbio la recovery sia un percorso individuale, esso può essere considerevolmente sostenuto e favorito dall’assistenza di operatori esperti e competenti. Il ruolo degli operatori è sicuramente difficile, ma considerando i danni che questi disturbi possono arrecare all’autostima e alla fiducia della persona, risulta difficile immaginare come si possa portare a termine un percorso di recovery utilizzando altri mezzi.

All’interno dei servizi di salute mentale è difficile e faticoso riconoscere e lavorare in una prospettiva dove l’utente è visto come soggetto e attore del proprio percorso di integrazione e di emancipazione, ma non impossibile. Infatti, l’incontro con la malattia rappresenta una risorsa per poter comprendere in senso ampio le differenze e successivamente poter lavorare con queste favorendo così percorsi di integrazione e di elaborazione di una pluralità di prospettive che tengano conto sia del punto di vista dell’utente che quello del professionista.

Recovery ed empowerment delle persone

Quando si parla di recovery non si può fare a meno di pensare a come questo processo aumenti l’empowerment nelle persone, infatti la percezione di “avere potere” aumenta, il potere di contribuire alle decisioni che lo riguardano, di esercitare controllo sulla propria vita e aumentare la capacità di attivarsi per realizzare le proprie aspirazioni nonostante la patologia; questo processo permette alle persone di scoprire e rafforzare la sensazione soggettiva di “avere potere”, cioè di tradurre in pratica il senso di potere che percepiscono per acquisire ed esercitare maggiore controllo sulla propria vita.

L’empowerment è il processo mediante il quale il soggetto si libera dal potere soverchiante dei sintomi e inizia ad esercitare su di essi il proprio potere; quando parliamo di empowerment durante il processo di recovery è innanzitutto affermazione di sé e la riappropriazione della propria dignità personale; testimonia i percorsi attraverso i quali ogni persona costruisce in modo soggettivo il proprio empowerment e persegue la propria strategia di guarigione.

È quindi evidente la saldatura tra processi di recovery e processi di empowerment. Quest’ultimo si costruisce attraverso il raggiungimento di successi nei compiti di tutti i giorni; man mano che le persone accumulano esperienze di successo, l’empowerment cresce, mentre il contrario crea nella persona la perdita di capacità di agire nei propri interessi e la perdita di fiducia in sé stessi.

Resilienza e salute mentale

Per resilienza s’intende la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà. È la capacità di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità che la vita offre, senza perdere la propria umanità.

Il termine “resilienza”, che in realtà deriva da altri ambiti (in ingegneria: “capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi”; in ecologia e biologia: “capacità di una specie di auto-ripararsi dopo un danno”; nella teoria dei sistemi: “capacità che ha un sistema di resistere ai cambiamenti provocati dall’esterno (…) mantenendo la coesione strutturale attraverso il processo di sviluppo”), viene ad assumere un significato specifico nell’attuale dibattito sulla salute mentale e soprattutto sui modi per studiarla e promuoverla.

La resilienza è la capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzato o, addirittura, trasformato. Non corrisponde alla “competenza sociale”, alla “salute mentale positiva” o al buon adattamento tout court; non è un tratto psicologico osservabile, non è una promozione della resilienza e strategie di intervento singola qualità; è essenzialmente un concetto interattivo che deriva dalla combinazione di esperienze di rischio gravi con una riuscita psicologica relativamente positiva a dispetto di tali esperienze.

La resilienza si riferisce ad un generale stato di adattamento nella vita quotidiana (non è detto che un individuo lo sia ogni giorno e in ogni momento della giornata) e gli stessi fattori protettivi non possono essere considerati attributi fissi. Alcune variabili possono costituire un fattore di rischio in una data circostanza e divenire protettive in un’altra. È possibile, altresì, che fattori protettivi e fattori di rischio tendano ad accumularsi e ad essere pervasivi, aumentando la probabilità di successo/insuccesso di un soggetto (ogni successo nel superamento di un compito evolutivo, comportando l’acquisizione di nuove competenze, incrementerebbe le probabilità di successo nei compiti successivi; viceversa, un fallimento aumenterebbe le probabilità di andare incontro ad ulteriori fallimenti).

Il termine resilienza richiama la matrice latina del termine (“resilire”, da “re-salire”, saltare indietro, rimbalzare), per esprimere la capacità dell’individuo di fronteggiare una situazione stressante, acuta o cronica, ripristinando l’equilibrio psico-fisico precedente allo stress e, in certi casi, migliorandolo.

Nell’ambito della scienza dei materiali, resilienza indica la proprietà che hanno alcuni elementi di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In biologia e in ecologia la resilienza esprime la capacità di un sistema di ritornare a uno stato di equilibrio in seguito ad un evento perturbante.

La resilienza è in altri termini la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo. Essere resilienti non significa infatti solo saper opporsi alle pressioni dell’ambiente, ma implica una dinamica positiva, una capacità di andare avanti, nonostante le crisi, e permette la costruzione, anzi la ricostruzione, di un percorso di vita.

Si tratta di un dono inestimabile, che permette di superare le difficoltà, ma che non rende invincibili e non è neppure presente sempre e comunque: possono infatti verificarsi momenti in cui le situazioni sono troppo pesanti da sopportare, generando un’instabilità più o meno duratura e pervasiva. Tuttavia, è indubbio che la forza delle battaglie superate predispone l’individuo a lottare con maggior consapevolezza (dei rischi assunti e della probabilità di riuscita).

La letteratura scientifica dimostra che la resilienza è un fenomeno ordinario nell’essere umano e non stra-ordinario. Le persone comunemente e generalmente si dimostrano resilienti. Generalmente, col il trascorrere del tempo, le persone trovano il modo di adattarsi bene a situazioni oggettivamente drammatiche come incidenti, lutti, calamità naturali ed eventi traumatici in generale. In tal senso, il costrutto di resilienza evidenzia l’importanza delle risorse di un individuo rispetto alle proprie capacità di autoriparazione per la sopravvivenza.

Essere resilienti non significa che la persona non si senta in difficoltà o non esperisca una certa quota di distress; il dolore emotivo, la tristezza e altre emozioni negative sono frequenti e comuni in coloro che vivono delle avversità o delle situazioni traumatiche.

La resilienza non è un tratto stabile e immodificabile della personalità, ma viceversa implica una serie di comportamenti, pensieri e atteggiamenti che possono essere appresi, migliorati e sviluppati in ciascun individuo. Essa è una funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto all’esperienza, ai vissuti e, soprattutto, al cambiamento dei meccanismi mentali che la sottendono.

Avere un alto livello di resilienza non significa non sperimentare affatto le difficoltà o gli stress della vita, significa avere le risorse per riuscire ad affrontarli senza farsi sopraffare dagli eventi stessi. Avere un alto livello di resilienza non significa essere infallibili ma disposti al cambiamento quando necessario; disposti a pensare di poter sbagliare, ma anche di poter correggere la rotta.

Gli individui resilienti trovano in loro stessi, nelle relazioni umane e nei contesti di vita quegli elementi di forza per superare le avversità, definiti fattori di protezione contrapposti ai fattori di rischio, che invece diminuiscono la capacità di sopportare il dolore.

Parlare in termini di resilienza vuol dire modificare lo sguardo con cui si leggono i fenomeni e superare un processo di analisi lineare, di causa ed effetto. In letteratura esiste una diatriba tra coloro la cui definizione di resilienza è applicabile esclusivamente a individui che non hanno mai presentato fattori di rischio o esibito comportamenti o sintomi di malattia mentale, dipendenza da sostanze, delinquenza, sindromi post traumatiche (Rutter, 1987;Werner, 1989) e coloro che concepiscono la resilienza come un costrutto più ampio per cui la capacità di recupero sarebbe una particolare forma di resilienza (Brown & Kulig, 1996; Horowitz, 1987; Miller, 2003; Roisman, 2005). Si discute inoltre sulla possibilità di svolgere un lavoro specifico sulla resilienza in varie fasi di sviluppo e in presenza di una psicopatologia.

Il lavoro terapeutico basato sulla resilienza, secondo una serie di riferimenti presenti in letteratura, si basa sulla possibilità dell’individuo di operare delle “trasformazioni cognitive” in momenti critici, definiti turning points (punti di svolta), all’interno di un percorso di recupero da eventi ed esperienze stressanti. La possibilità per l’individuo di operare tali trasformazioni andrebbe interpretata come un marker di resilienza, rappresentando un adattamento a circostanze avverse che coinvolge i fattori protettivi.

Concludendo, si evince quanto i concetti di recovery e resilienza siano fondamentali e in collegamento all’interno del discorso sulla salute mentale e, pertanto, punti cardine del percorso riabilitativo tra professionisti sociosanitari e pazienti. Stare in un processo di recovery vuol dire anche essere capaci di sviluppare la propria resilienza in tutte le sue specificità sopra citate; accompagnare all’interno di tale processo il paziente, per un operatore, vuol dire educare alla resilienza per far sì che la persona smetta di sentirsi estranea, diversa o sbagliata. In questo senso la dimensione umana è imprescindibile e legata alla professionalità degli operatori.

  • Articolo redatto con la collaborazione della dott.ssa Marina Malgeri – Educatrice Professionale
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