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salute mentale

Il processo del recovery: appunti e spunti

di Carlo Scovino

Il concetto di recovery è stato definito e tradotto in molti modi, ma nessuna accezione coincide con la scomparsa della malattia, piuttosto essa rispecchia lo sviluppo di abilità perdute con la malattia e il recupero di un ruolo valido e soddisfacente all’interno della società (Carozza, 2006). Non si riferisce a una cura o a una prestazione specifica, ma implica un percorso, spesso non chiaro, durante il quale il cittadino-paziente deve imparare a fronteggiare gli eventi quotidiani, avere buone capacità relazionali e sociali, servendosi anche di opportuni sostegni e riconoscendo i propri limiti.

Salute mentale e processo di riabilitazione

Il concetto di recovery riguarda il recupero di un ruolo valido e soddisfacente all’interno della società

Prima di addentrarmi nella riflessione sul modello interdisciplinare e multiprofessionale di Recovery for Life vorrei approfondire la riflessione sul processo di recovery già affrontato in un precedente articolo.

Tale processo è qualcosa di complesso e non lineare: è un’esperienza di crescita oltre la malattia ed è la sensazione che “il peggio è passato”: il concetto di salute mentale deve essere pensato come un orizzonte i cui contorni vengono sempre spostati dall’azione umana soggettiva e collettiva in relazione alle vicende politiche, sociali e culturali di un determinato momento storico.

Le ricerche effettuate a partire dagli anni ‘70 (Bleuler, Ciompi e Muller in Svizzera; Huber in Germania; Tsuang, Harding, e De Sisto negli USA) hanno dimostrato che buona parte dei cittadini-pazienti schizofrenici a distanza di 20-40 anni, anche se con sintomi psicotici attivi, presentavano un buon adattamento sociale, dato rilevante per la loro qualità di vita. Infatti, il concetto di guarigione sociale che ne originò promosse l’idea che ciò che contava era la qualità della vita, che lo scopo delle terapie doveva essere il benessere delle persone e che la salute non era sinonimo di normalità.

Se il paradigma del welfare aveva insistito sui fattori di rischio che la società avrebbe dovuto contrastare, le ricerche avviate misero in luce il valore dell’empowerment, della resilienza, e del coping (fronteggiamento) nella quotidiana lotta che la persona con patologia psichiatrica combatte con la sua malattia. Una svolta significativa si è avuta quando hanno iniziato a parlare i diretti interessati contribuendo alla ridefinizione del concetto di malattia mentale, di guarigione e di salute come autodeterminazione ed inclusione.

Negli ultimi 30 anni l’esperienza della malattia è diventata sempre più parte della vita stessa: quando la malattia da evento diventa condizione più o meno permanente le cose cambiano e la questione del senso soggettivo dell’esperienza non si esaurisce nel giudizio di benessere, ma penetra nella malattia stessa in quanto richiede al soggetto un lavoro di integrazione e di riformulazione della propria immagine ed identità. Le testimonianze dei cittadini-pazienti tendono a valorizzare il fatto che siano loro stessi a decidere di attivarsi con l’intenzione di star meglio, anche se è opinione condivisa da molti studiosi che la recovery finisca per incidere anche sulla durata e sulla frequenza dei sintomi.

Come si “legge” la recovery

La letteratura sulla recovery è ormai cospicua e sono stati identificati diversi elementi comuni quali ad esempio la ripresa di aspettative sul futuro, il superamento della negazione della malattia, l’accettazione della nuova condizione, il coinvolgimento, l’atteggiamento attivo, la rivendicazione di un senso di sé positivo.

Alcuni segni sono soggettivamente percepiti dai cittadini-pazienti: l’esistenza di progetti di vita, la fiducia nelle proprie capacità di iniziativa, l’organizzazione piacevole del tempo libero, l’armonia con l’ambiente, la sensazione di benessere vitale, la stima di sé stessi, la percezione del futuro, la riduzione dello stigma interno.

Altri segni sono più oggettivabili: il ricoprire un ruolo valido e soddisfacente, la realizzazione di relazioni significative, la riduzione e/o il controllo dei sintomi, il miglioramento della salute fisica.

Elementi che facilitano la recovery

Tra gli elementi che facilitano la recovery si segnalano: il sistema dei servizi che deve porre i bisogni dei cittadini-pazienti al centro del progetto di cura, il sapere che le opinioni dei cittadini-pazienti contano, la tolleranza per la diversità, la responsabilità verso le cure, l’ ospedalizzazione come ultima ratio, un rapporto di partnership tra gli operatori  e i soggetti, l’integrazione con programmi individualizzati per gli utenti e per i loro famigliari, interventi tempestivi e proattivi.

Oltre alla macro e micro organizzazione dei servizi, un ruolo decisivo è svolto dai professionisti che vi lavorano. Le relazioni che si sviluppano devono essere caratterizzate da continuità, disponibilità, comprensione, apertura, convincimento della possibilità di ripresa e rispetto. Tutti i professionisti devono essere formati con programmi di aggiornamento permanenti: la formazione degli operatori deve prevedere il coinvolgimento degli utenti come portatori di esperienza attiva.

Negli ultimi cinquant’anni il concetto di schizofrenia1 è molto cambiato, soprattutto in seguito allo sviluppo di trattamenti finalizzati al reinserimento sociale e lavorativo e di importanti studi longitudinali, condotti per valutare gli esiti a lungo termine (Ciompi & Muller, 1984; Harding, Brooks & Ashikaga, 1987; De Girolamo, 1996 ed altri). Queste ricerche hanno dimostrato che la malattia mentale può evolvere positivamente fino ad arrivare alla guarigione, il che non significa tornare ad essere come si era prima della malattia (restitutio ad integram), ma elaborare ed attuare nuovi comportamenti per condurre una vita soddisfacente e produttiva, nonostante le limitazioni che la malattia induce (Anthony,1993).


Secondo uno studio di Hardin, Zubin e Strauss (1992) anche una malattia mentale destrutturante, come la schizofrenia, può essere considerata una condizione dinamica, dipendente da una serie di fattori, tra cui l’ambiente, le interazioni sociali e il tipo di trattamento. Il rapporto tra malattia e ambiente incide sia sul decorso che sugli esiti: è molto importante la percezione che il cittadino-paziente ha di se stesso come persona intera e quanto gli altri lo percepiscono come tale e la qualità del rapporto che ha con il contesto in cui vive.

L’assunzione che le persone con gravi disturbi psichici abbiano una vita senza scopi e progettualità è stata messa fortemente in discussione nei primi anni novanta (Moxley & Mowbray, 1994; Farkas, Gagne & Anthony, 1997). Da queste nuove prospettive sono derivate importanti conseguenze (Carozza, 2006): il focus è stato spostato dal disturbo alla persona, ritenuta capace di recuperare le sue energie per poter migliorare i propri livelli funzionali di base. Sono stati messi in discussione alcuni pregiudizi che in passato hanno condizionato sia la visione di queste patologie che i trattamenti (ad es., che una diagnosi di schizofrenia rimane per sempre, non c’è possibilità di ritorno).

Oggi numerosi studi, da quelli che hanno considerato i casi più gravi che richiedono frequenti ospedalizzazioni a quelli che hanno considerato i casi in cui l’episodio di singola malattia è seguito da una completa remissione dei sintomi, hanno riscontrato che la schizofrenia possiede una gamma eterogenea di decorsi e di outcomes (Leucht & Lasser, 2006; Zipursky, 2014; Emsley et al., 2011). Uno studio di Van Eck e colleghi (2017) afferma che la traiettoria della schizofrenia è piuttosto eterogenea, con risultati diversi.

Queste ricerche longitudinali hanno contribuito al superamento della convinzione che il deterioramento è l’esito della schizofrenia e hanno costituito il fondamento scientifico della nascita del concetto di recovery, apparso per la prima volta negli anni ’80 nelle testimonianze dei cittadini-pazienti che si sono “ripresi”. Per queste persone riprendersi significa sviluppare in modo personale nuovi significati e propositi man mano che le persone si evolvono oltre la catastrofe della malattia mentale (Anthony, 1993).

Il concetto multidimensionale di recovery

Recovery comporta lo sviluppo di nuovi significati e apprendimenti nella vita di una persona che cresce e si sviluppa oltre gli effetti catastrofici della condizione patologica

Un contributo importante alla nascita del concetto di recovery è stato dato anche dalla diffusione di movimenti socio-politici per la difesa dei diritti delle persone con disabilità psichiatrica e l’emissione di normative finalizzate al superamento dell’emarginazione e dell’incuria in cui queste persone vivevano.

Il concetto di recovery è stato definito e tradotto in molti modi, ma nessuna accezione coincide con la scomparsa della malattia, piuttosto essa rispecchia lo sviluppo di abilità perdute con la malattia e il recupero di un ruolo valido e soddisfacente all’interno della società (Carozza, 2006).

Non si riferisce a una cura o a una prestazione specifica, ma implica un percorso, spesso non chiaro, durante il quale il cittadino-paziente deve imparare a fronteggiare gli eventi quotidiani, avere buone capacità relazionali e sociali, servendosi anche di opportuni sostegni e riconoscendo i propri limiti. Per Liberman e Kopelowicz (2005) le persone sono in recovery quando i sintomi della loro malattia non interferiscono con il loro funzionamento nella vita quotidiana.

Recovery movement

Nei paesi anglosassoni, ma non solo, negli ultimi trent’anni, in seguito a una serie di fattori concomitanti è nato e si è sviluppato il recovery movement, che sostiene la deistituzionalizzazione e l’integrazione dei cittadini-pazienti nella vita comunitaria, un maggior controllo sul proprio destino, lo sviluppo del movimento per i diritti umani e la disponibilità di psicofarmaci maggiormente tollerati.

Studi di follow-up a lungo termine (Harding et al., 1992; Liberman & Kopelowitz, 2005) hanno evidenziato come il tasso di recovery sia molto più elevato quando avviene dopo il primo episodio rispetto alla cronicità: 93% USA, Los Angeles; 91% Australia, Melbourne; 89% Nuova Scozia, Halifax (dopo il 1° episodio) vs il 45% USA, Chicago; 46 % USA, Iowa; 53% Svizzera, Berna (cronicità). Questi dati confermano l’importanza di attuare interventi precoci.

Per poter parlare di recovery i miglioramenti ottenuti devono essere mantenuti almeno per due anni. Molti ricercatori concordano che i cittadini-pazienti in fase di ripresa hanno un minor numero di sintomi e di ricoveri e recuperano molte aeree di vita perdute in seguito alla malattia; rifiutano il ruolo di persone malate gestendo i sintomi, recuperano diritti (ad es., essere trattati con dignità e rispetto, esercitare diritti e doveri come tutti gli altri cittadini), ruoli e responsabilità, sviluppano l’empowerment che favorisce la capacità contrattuale nel prendere decisioni che riguardano sia il trattamento che le scelte di vita.

Attraverso la ricostruzione di contatti personali, sociali e ambientali c’è un’integrazione nella comunità e ciò porta alla speranza di un futuro migliore e alla possibilità di condurre una vita significativa e l’aumento dell’autoefficacia e dell’autostima sono conseguenze di questi cambiamenti. Alcuni studi, (Rossler e colleghi, 2006) indagano l’attitudine al pregiudizio e allo stigma degli stessi operatori della salute mentale.

Il processo di riabilitazione deve considerare sia lo stigma interno che esterno, perché solo una visione completa di tale problematica può portare al suo superamento. Purtroppo, nonostante tali pregiudizi siano stati confutati attraverso evidenze scientifiche, permangono, anche se in minor misura e sebbene si parli sempre più spesso di superamento dello stigma esso è ben radicato. Accade ancora frequentemente che chi lavora in ambito psichiatrico si sorprenda quando questi cittadini-pazienti rivelano bisogni estremamente normali, come ricercare amicizie o relazioni affettive, oppure quando chiedono di lavorare, avere degli hobby o sposarsi e desiderare dei figli.

Il crescente interesse per tale concetto rende sempre più urgente l’individuazione di strumenti valutativi che lo misurino, anche per verificare l’efficacia delle pratiche utilizzate dai servizi di salute mentale. Attualmente si dispone di diverse scale come il RAQ (Recovery Attitude Questionnaire, Borkin, et al., 1998), il Rochester Recovery Inquiriy, la RAS (Recovery Assessment Scale) che è la scala più usata per misurare la recovery ed è ritenuta affidabile, valida e coerente (Corrigan, et al.,1999) e che misura la recovery personale dei cittadini-pazienti ed è autosomministrata.

Il modello Recovery for Life

L’aumento del disagio psichico sta diventando sempre più una grave emergenza, il problema è particolarmente grave per i giovani per i quali recenti ricerche scientifiche hanno lanciato l’allarme. Anche i dati dei principali ospedali italiani registrano questo fenomeno. Negli ultimi dieci anni nei dipartimenti pediatrici ospedalieri è stato rilevato un aumento significativo delle problematiche di salute mentale. Nonostante questo, la disponibilità di servizi sanitari dedicati ad affrontare il disagio psichico dei giovani non è ancora adeguata.

Sono ancora poche le strutture assistenziali dedicate ai più giovani, le cure al momento dell’esordio della malattia sono fondamentali per evitare che il disagio divenga cronico, i disturbi della condotta alimentare (in aumento non solo tra le giovanissime ma anche tra I ragazzi) richiedono strutture dedicate con programmi specifici.

RFL sta costruendo una rete di servizi di riabilitazione per minori e giovani adulti con disagi psichici e relazionali. L’organizzazione continua a collaborare con i servizi psichiatrici per adulti (CPS) e con le neuropsichiatrie infantili (UONPIA) per creare un modello assistenziale di riabilitazione che accolga ed accompagni i giovani e le famiglie in un percorso efficace.

La crescita può essere interrotta da disagi psicologici e relazionali quali comportamenti aggressivi, atti di autolesionismo, ritiro sociale, attacchi di panico, disturbi dell’alimentazione, depressione. Il disagio dei giovani non sempre è un evento normale ascrivibile al processo evolutivo. Alcune difficoltà richiedono l’intervento di professionisti della salute per evitare che i problemi diventino cronici e mettano a rischio il futuro. La diagnosi preventiva delle patologie che si presentano nei ragazzi è la chiave per contenere le gravi conseguenze che ne derivano.

Secondo l’ultimo rapporto post-Covd dell’UNICEF nel mondo un adolescente su 7 convive con un disturbo mentale diagnosticato e un giovane su 5 tra i 15 e i 24 anni dichiara di sentirsi spesso depresso o di avere poco interesse nello svolgimento di attività.

Un sondaggio condotto dall'agenzia ONU con la Gallup in 21 Paesi ha evidenziato che sono 89 milioni i ragazzi e 77 milioni le ragazze tra i 10 e i 19 anni con disturbi mentali. Una condizione che a volte diventa insopportabile: lo dimostra il fatto che quasi 46.000 adolescenti ogni anno si tolgono la vita, più di uno ogni 11 minuti.

Comunità ad Alta Protezione, il modello di Limbiate

Nella Comunità ad Alta Protezione (CPA) di Limbiate (MB) verranno accolti giovani da 18 ai 25 anni a verranno costruiti con loro e con le loro famiglie percorsi riabilitativi ad hoc. Il percorso di riabilitazione è personalizzato sulle necessità di ciascun soggetto e della sua famiglia e all’interno della CPA viene messo a punto un intervento progressivo, modulare e integrato. La CPA offre interventi residenziali rivolti a ragazzi con disagio psichico e relazionale che necessitano di un contesto di cura intensivo e specializzato.

I quadri psicopatologici complessi che non rispondono ad interventi ambulatoriali o strutturati richiedono un’attenzione specifica con un percorso residenziale di approfondimento diagnostico e intervento riabilitativo. Gli obiettivi sono: stabilizzare e risolvere situazioni psicopatologiche gravi che investono l’area psicologica, relazionale, sociale, scolastica ed educativa. L’équipe di lavoro è multidisciplinare ed integrata, sono presenti: psichiatri, psicologi/psicoterapeuti, educatori professionali, tecnici della riabilitazione psichiatrica, infermieri, operatori socio-sanitari, maestri d’arte.

Attraverso colloqui individuali, attività strutturate di riabilitazione e attività di gruppo, i giovani sperimentano un contesto clinico-educativo che permette loro l’elaborazione delle difficoltà psicopatologiche e la crescita personale necessaria per emergere da un breakdown evolutivo. Le famiglie sono al centro del lavoro riabilitativo e viene offerta la possibilità di una presa in carico genitoriale e la partecipazione a gruppi psicoeducativi con l’obiettivo di potenziare le risorse famigliari e supportare gli eventuali limiti.

Le dimissioni sono sempre concordate con la persona interessata, la famiglia e i servizi invianti. Particolare attenzione viene data al proseguimento dei percorsi scolastici, al loro supporto e al loro potenziamento, lavorando in integrazione con le principali agenzie socio-educative della comunità.

L’organizzazione RFL sta costruendo su tutto il territorio nazionale una rete di strutture di riabilitazione per minori e giovani adulti con disagio psicologico e relazionale. La CPA di Limbiate è una struttura accreditata con ATS (MB), ma non contrattata e questo in Lombardia significa che gli inserimenti devono essere effettuati con la formula cosiddetta 43 San2.

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