Come si può implementare la sicurezza di fronte all’aggressività di origine patologica del paziente nell’organizzazione di strutture deputate all’assistenza sanitaria senza ricorrere alla contenzione? Considerando i bisogni assistenziali non soltanto sotto il punto di vista delle esigenze di sicurezza, ma tentando di armonizzare le finalità di cura e di controllo, ad esempio.
Oltre la contenzione: barriere alla cura o barriere culturali?
La contenzione è sempre stata trattata come una modalità reattiva rispetto ad atti “violenti” da parte di pazienti aggressivi, in preda a crisi psicotiche o con forme di demenza avanzata, condizioni tutte che spesso obbligano o “permettono” gli/agli operatori di utilizzare strumenti coercitivi nei confronti di soggetti definibili deboli.
Troppo spesso si è ritenuto indispensabile utilizzare tale forma di assistenza sanitaria, senza considerare altri approcci meno violenti, meno contenitivi.
Qualche anno fa insieme ad alcuni colleghi (Catia Pisoni, Felicia di Bacco e Nello Cornacchione) affrontammo il tema della limitazione della libertà dei pazienti definendo alcuni strumenti utili a “contenere la contenzione per il benessere della persona assistita”.
Già il Ministero della Salute tra il 2007 e 2008 aveva emanato due raccomandazioni funzionali alla riduzione di suddetta pratica: Raccomandazione per prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari e Prevenzione del suicidio in ospedale.
Come afferma Giandomenico Dodaro, ricercatore di diritto penale presso la scuola di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, tali raccomandazioni perseguono il medesimo obiettivo: la messa in atto, ai diversi livelli delle organizzazioni sanitarie, di strategie e meccanismi efficaci di controllo e prevenzione, che consentano la gestione al meglio delle conseguenze sociali e giuridiche dell’errore. Risulta quindi necessario proporre e realizzare strategie e soluzioni di tipo ambientale, logistico, organizzativo e/o tecnologico che consentano di controllare, eliminare o ridurre le condizioni di rischio presenti
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Se il ricercatore di diritto penale sopra menzionato, Giandomenico Dodaro, si trovasse a leggere il presente articolo, a questo punto ci porrebbe una domanda: come è possibile implementare la sicurezza (con i precedenti interventi anti contenzione elencati) di fronte all’aggressività del paziente di origine patologica, nell’organizzazione di strutture deputate all’assistenza sanitaria?
Citando una sentenza della Corte Costituzionale (1998-2003), la risposta potrebbe essere la seguente: considerando i bisogni assistenziali non soltanto sotto il punto di vista delle esigenze di sicurezza, ma tentando di armonizzare le finalità di cura e di controll.
In Italia esistono moltissime realtà cosiddette “No-Restraint” (Trieste città libera dalla contenzione, ad esempio) all’interno delle quali l’armonia esiste, anche sotto il punto di vista della sicurezza dei luoghi di cura.
Molte strutture si sono dotate di palestre, realizzano attività ludiche, di integrazione sociale. Un’ulteriore testimonianza in tal senso ce la fornisce il Dottor Piero Cipriano, che nel suo libro “Il Manicomio Chimico”, ci fa conoscere Loren Mosher psichiatra sociale: negli anni settanta egli riteneva che la schizofrenia fosse una risposta adattiva all’ambiente, per cui era persuaso che il miglior trattamento fosse offrire un posto tranquillo dove superare la crisi, con l’assistenza di operatori, dotati di grandi capacità empatiche.
Ideò il Soteria Project, costituito da due case (Soteria ed Emanon), in grado di ospitare un massimo di sei pazienti per volta. I pazienti in Soteria vissero quindi in un ambiente tranquillo, armonico e manifestarono un decorso migliore rispetto all’altro gruppo (Emanon, trattato farmacologicamente) e nei follow up a 2 anni riportarono un numero più basso di ricoveri e un migliore reinserimento sociale e lavorativo.
La conclusione? Il National Institute of Mental Health fu così contento di queste evidenze che sollevò dall’incarico Loren Mosher (cit. Piero Cipriano).
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