Ai confini dell’esistenza si può trovare la malattia. Subdola, presente, rabbiosa, parzialmente o mai accettata, terreno di confronto e scontro con sé stessi, con il nucleo famigliare, le persone significative, la società. Nel ring della vita, che i combattimenti si tengano ad Harlem o al Madison Square Garden, la pugna è aspra: talvolta la folla incita, talaltra si odono fischi sommessi o rimbombanti. Molte le cadute, complesso il risollevarsi, più semplice quando vi sono braccia tese che sorreggono. La costante sta nel fatto che ciascuno di noi osserva l’altro nelle azioni, nelle dichiarazioni pubbliche ed in quel poco che ormai di privato esiste, in un mondo sempre più Orwelliano. Ed ai confini dell’esistenza dovrebbero trovarsi le sentinelle, i paletti, le Colonne d’Ercole da non oltrepassare: tra queste svetta, prima inter pares, l’etica.
Una questione di fiducia
Nell’evoluzione mondiale del contesto sanitario, tra l’alternanza di modelli di welfare, partecipazione alle cure, sistemi misti, assicurazioni e via di questo passo, torna alla mente, quasi scolpito nella pietra, l’assunto irrinunciabile che funge da architrave alla proposta scientifica di Onora O’Neill.
In “A question of trust”, l’intellettuale irlandese - allieva di John Rawls - si chiede: La fiducia può essere ripristinata, rendendo le persone e le istituzioni più responsabili?
Con il suo acume, la O’Neill indaga sulle fonti di inganno nella nostra società, analizzando anche le questioni attinenti la libertà di stampa.
Proviamo ad esemplificare: un buon navigatore del web, incappa in uno scritto che irride una persona affetta da una dipendenza. Raffigura la reazione rabbiosa che un medico od un infermiere potrebbe manifestare di fronte ad un soggetto che nega di aver assunto sostanze stupefacenti o alcool.
Quale sarà la domanda che si porrà? Invochiamo per la risposta l’aiuto da casa del Marchese di La Palisse: un sentimento di sfiducia ed angoscia nei confronti dell’istituzione sanitaria.
Il destino e la colpa. Sembra quasi il titolo di un’avventura a nuvole parlanti di Tex Willer o Zagor.
Il destino, quello che ha condotto quella persona in una data condizione di vita; la colpa, che gli viene affibbiata da soggetti che, nel nome di una presunta e male intesa autorità sociale, puntano il dito nei suoi confronti piuttosto che riconoscerne il bisogno di cura ed assistenziale, accogliendolo e conducendolo per mano in un percorso, esprimendo nei suoi confronti gesti tecnici, relazionali ed assistenziali.
Quanto mai opportuna la riflessione che scaturisce dagli scritti dell’evangelista Luca: Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?
(Lc, 6,41). Interessante - per taluni, presunti esegeti della morale altrui - salire sullo scranno fornito da un posto di lavoro in Pronto soccorso o su un mezzo del 118, per poter distribuire patenti di tossico, alcoolista e similia. Tanto, si sintetizza in “Bella vita e guerre altrui” ed anni orsono fu il titolo di un romanzo di Alessandro Barbero.
Sarebbe interessante conoscere qual è il loro senso della misericordia ed i tortuosi percorsi che li hanno poi condotti nel panorama variegato della professione infermieristica. In caso contrario, ne esprimerebbero il primum movens: la vicinanza, il senso di solidarietà.
Il fenomeno del dito puntato non è nuovo in letteratura: si chiama victim blaming e raggiunge l’apoteosi nel momento in cui è possibile scaricare la propria rabbia e senso di frustrazione sugli altri.
Certamente la nostra condizione professionale è delicata ed espone non poco, ma non vi è alcuna attribuzione sociologica che consenta di avocare a sé potestà di giudizio ed apposizione di lettera scarlatta.
Analoga la pruriginosa ricerca, alla fine della vita, di testimonianze che riguarderebbero dichiarazioni di pentimenti o contrizione. L’infermiere, particolarmente nelle cure critiche, deve privilegiare la parte relazionale, padroneggiando l’esercizio delle non technical skill.
Il codice di deontologia infermieristica, seguendo un filo rosso conduttore, già nella primigenia versione (1960) indica il netto dover osservare il segreto professionale, per “intima convinzione”. Nelle altre tre versioni consecutive, 1977, 1999, 2009 e nella Bozza di Codice 2018, questa dichiarazione d’intenti viene assolutamente confermata.
La ricerca di quello che la tal starlette del cinema o il tal personaggio del malaffare possa aver confidato, in articulo mortis e con il più grande beneficio del dubbio, è cosa che appartiene all’immaginifico, mira tendenziosamente ad insinuare, inventa, trama, crea una profonda dissonanza tra quella che dovrebbe essere la deontologia professionale e la squassante amplificazione prodotta dal web, i cui utenti spesso non riconoscono le fake news.
L’habitus etico dev’essere di uso comune, indossato da ciascun professionista. Quando la sua esistenza è ignota o ignorata da chi piega la realtà ai suoi obiettivi è evidente che qualcosa è saltato, che l’infermiere si è lasciato condizionare da interessi terzi, che è disposto a manipolare, lasciando credere qualcosa di diverso dall’esistente.
È importante rammentare quanto affermato da Platone: Ben al di sopra della conoscenza, stavano le seguenti tre regole:
- chi parla e scrive deve conoscere nel miglior modo possibile l’essenza delle cose di cui intende parlare;
- deve conoscere le anime degli uomini a cui parla;
- deve presentare argomenti in proporzione delle capacità che gli ascoltatori mostrano di avere
(G. Reale. Mi sono innamorato della filosofia. Milano: Bompiani, 2014).
Il rischio, non osservando queste regole, è tentare di rivolgersi a persone di cui non si conosce/comprende la disposizione di animo.
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