Un Film di grande attualità: "Campo di battaglia" e il conflitto tra umanità e guerra
"Campo di battaglia" il nuovo film di Gianni Amelio nelle sale dal 5 settembre
Ti aiuto a tornare a casa , inizia a sussurrare un giorno uno dei medici, uno diverso, che passa tra quelle corsie di disperati. E comincia a peggiorare in segreto le condizioni di quegli uomini, i più gravi, così da non farli andare incontro a morte certa. Con me non muore nessuno. Io non li lascio questi disperati , promette in cuor suo guardando la follia della guerra dalla finestra.
Un'infermiera corre tra i letti di ferro bianchi, che sembrano già sudari, quando sospetto e contagio iniziano a diffondersi tra il personale sanitario e i ricoverati. Sono alcune delle scene di "Campo di battaglia" , in concorso per il Leone d'Oro, presentato sabato scorso alla Mostra del Cinema di Venezia e nelle sale dal 5 settembre.
Il film del regista Gianni Amelio, liberamente ispirato al romanzo "La sfida" di Carlo Patriarca , racconta la storia di due ufficiali medici, Stefano e Giulio, e di un'infermiera che entrambi amano, Anna, in un ospedale militare in Friuli Venezia Giulia nel 1918 durante la Prima Guerra Mondiale. Amici da sempre e laureati insieme alla facoltà di medicina, oltre che per l'amore verso la stessa donna, si ritrovano divisi e contrapposti anche in ospedale per il modo in cui interpretano e vivono la propria professione, messa alla prova dalla guerra. Anche l'ospedale militare diventa quindi un campo di battaglia, come quello fuori dai cancelli della dimora allestita dall'esercito italiano per tale funzione, non solo per la crudezza delle sofferenze dei soldati feriti, ma anche per una contrapposizione ideologica e affettiva sullo sfondo della Grande Guerra e della pandemia di Spagnola.
I due uomini si mettono l'uno contro l'altro, sia in guerra che in amore, per le loro diverse morali, che impattano sulla tragedia che stanno vivendo. La differenza, come uomini e come medici, esplode drammaticamente, dilaniandoli, davanti alle sorti dei soldati provenienti da tutte le regioni italiane, che sono chiamati a curare per rimandarli al fronte il prima possibile, una volta guariti, seguendo gli ordini dei vertici militari.
Incarnano due diverse visioni della professione medica applicata in una situazione di guerra. Da una parte c'è Stefano che, ligio al dovere, vuole rimandare sul campo di battaglia tutti i feriti al primo accenno di guarigione, soprattutto quelli che si procurano da soli il modo di evitare il combattimento. Definisce vigliacchi e miserabili simulatori gli autolesionisti e li disprezza perché tolgono posti letto e assistenza ai soldati valorosi. Li giudica colpevoli di lasciare gli altri a morire per loro , così che al termine della guerra a fare l'Italia resteranno solo i furbi . Li combatte con ossessione e li dimette all'istante se si accorge dell'inganno, pena la fucilazione davanti al Tribunale militare se non obbediscono alla dimissione. Diventa così un medico sbirro.
Dall'altra parte c'è Giulio, che il medico non lo voleva proprio fare e che vorrebbe essere lontano dall'orrore in cui è stato mandato. Lui, che voleva essere un biologo ricercatore, arriva invece a contagiare, mutilare e privare della vista e dell'udito quei soldati che vorrebbero solo tornare a casa. I pazienti lo chiamano la mano santa perché li strappa a una guerra ingiusta , rifiutandosi di obbedire alle circostanze. Diventa un sabotatore, usando il mestiere del medico per salvare non soltanto uomini, ma anche la pace, togliendo soldati alla guerra.
Entrambi agiscono con una genuina nobiltà d'animo e con onore, assumendosi la responsabilità delle loro decisioni e vivendo il loro personale conflitto. Semplicemente scelgono, messi di fronte a fatti drammatici e devastanti, due percorsi opposti. In mezzo a questo dualismo c'è Anna, una giovane donna che sarebbe stata anch'essa un'ottima medico se il costume del tempo non le avesse impedito di laurearsi in quanto donna, costringendola a preferire , rinunciando alle sue aspirazioni, di essere soltanto un'infermiera crocerossina, seppur impeccabile.
Pur ritenendo la guerra un dovere e necessario combattere, Anna rivela nel corso dell'intensa narrazione una particolare sensibilità verso i giovani soldati feriti che assiste, esercitando una pietà istintiva che la porta ad essere incline alla concezione di Giulio piuttosto che a quella di Stefano, scoprendo nei suoi confronti anche un sentimento d'affetto.
Dimostra il suo coraggio e di essere una persona che prende posizione, dopo essere stata capace di guardare la situazione da diverse prospettive. Si prende cura di tutti e non abbassa lo sguardo né la testa. Ne emerge il profilo di una bella figura d'infermiera, seppur nella limitatezza del ruolo assegnato nel 1918 e sebbene sia stata costretta dalla società a tale professione più da donna , ritenuta altresì ancora ancillare a quella medica.
Al di là del cliché della storia d'amore tra medico e infermiera, che può comunque sovente capitare per la vicinanza nell'ambiente di lavoro e per il legame che inevitabilmente si crea vivendo insieme certe situazioni intense e drammatiche, di vita e di morte, e oltre alle discriminazioni legate al genere, che erano ancora ben radicate nella società dei primi del Novecento, il film di Amelio appare di grandissima attualità.
Il passato si confonde infatti con il nostro presente, in un mondo intossicato dai conflitti che sono ovunque , così che il tempo rappresentato nella finzione scenica diventa improvvisamente la realtà di oggi. La guerra e la pandemia influenzale che fanno da scenario nell'intreccio della storia dell'umanità di allora annullano le distanze dallo spettatore in sala, riportandolo al pensiero dei conflitti in corso, che non sono mai troppo lontani, e alla più moderna pandemia che ci ha colpiti un secolo dopo.
Questo non è un film di guerra, ma sulla guerra. Le immagini a cui ci siamo assuefatti in TV, così usurate, oggi sembrano quasi irreali, ne vediamo troppe. La guerra è anche vedere l'affondamento di un gommone , spiega il regista Gianni Amelio, denunciando come le persone non siano più in grado di ragionare e riflettere sul bene e sul male, subendo le emozioni.
Come non ritrovarsi poi nella paura delle persone ammassate ai cancelli dell'ospedale che lamentano una strana tosse, hanno paura di morire per il morbo contagioso e letale che si è diffuso e chiedono di essere curati? Come non rivedersi nel setting, laddove ogni ospedale, seppur di cento anni fa, è pur sempre un ospedale con le sue camerate e i suoi letti, le sue misure d'igiene, le sue regole, le fatiche e le difficoltà operative, i giri medici, le medicazioni e gli interventi chirurgici, i bendaggi e le stecche, nonché con i suoi lavoratori?
In un'epoca in frantumi come quella di allora, anche i sanitari di oggi, pensando soprattutto ai medici e agli infermieri che esercitano negli scenari di guerra in Ucraina e a Gaza, dimostrano abnegazione e pietas, rivelano fragilità mista a empatia, possono essere dilaniati da conflitti morali interiori, sono chiamati a prendere decisioni e ad assumersene la responsabilità, si portano dentro di sé ogni giorno tutto l'orrore e le miserie umane che vedono, vivendo tutto insieme ai pazienti nella trincea che può diventare, anche in tempo di pace, un ospedale.
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