Le aggressioni agli operatori sanitari sono diventate un fatto ordinario
Anna P.
Anna P., picchiata mercoledì sera al pronto soccorso dell'ospedale "San Leonardo" di Castellammare di Stabia
Anna è stata colpita con un pugno in faccia . Un uomo si è permesso di metterle una mano sulla spalla per condurla fuori dalla stanza ed ha colpito duro. Poi ha infierito, quando era a terra con il naso sanguinante, prendendola a calci. Alla sorella non è andata meglio, strattonata e presa per i capelli da una donna del gruppetto familiare che era al capezzale del malato. La violenza in fondo non è soltanto maschile, non ci sono sottili distinzioni tra i generi.
E non è neppure una violenza minore quella rivolta verso la sorella di Anna, fa male uguale anche se non ti gonfia e spacca la faccia. La bellezza di pensare a due sorelle infermiere che lavorano a fianco nello stesso Pronto Soccorso viene rubata dalla scena della violenza di coppia che subiscono, magari per difendersi l'un l'altra nella dinamica dei fatti, soprattutto in quanto colleghe, come abitualmente si fa, oltre che per il legame di sangue.
Anna dice di essere ora distrutta psicologicamente e fisicamente. Racconta di sentirsi un mostro ma la bruttezza non sta sul suo giovane volto deturpato. Ha una frattura dell'incisivo superiore destro mediale e un'infrazione delle ossa nasali. Presenta una ferita lacero-contusa del labbro superiore che è stata suturata con filo riassorbibile. La tumefazione del lato destro del volto la sfigura, oltre a farla sentire indolenzita. È comparsa una lombalgia post traumatica. E lamenta un severo stato di agitazione psicomotoria. Il referto le dà, salvo complicazioni, 25 giorni di prognosi. Per la guarigione dalla paura e dall'umiliazione che l'ha scossa e che ancora non la fa dormire, quella che ha fatto crollare il suo sogno, ci vuole molto di più.
Non è quantificabile il tempo che le ci vorrà per tornare a stare bene e per fidarsi ancora dei pazienti e dei loro parenti, per tornare a sentirsi sicura nel proprio ambiente di lavoro. Anna aveva soltanto chiesto ad alcuni familiari di un paziente di allontanarsi dall'area rossa e di aspettare notizie del proprio congiunto in sala d'attesa, così che il personale sanitario potesse lavorare serenamente. Del resto, si sa che l'area di emergenza, dove ci si prende cura dei malati in codice giallo e rosso, non può essere affollata di parenti. Non si fanno certamente eccezioni all'ospedale San Leonardo, dove le regole si fanno rispettare. Anche se certamente Anna avrà colto il disagio e la frustrazione dei familiari in pena per la salute del congiunto, si sarà ritrovata comunque nella condizione di chiedere loro la massima collaborazione e quella semplice civile educazione di reciproca convivenza così che potesse essere erogata a tutti i pazienti in emergenza la migliore pratica clinica.
Anna è molto più che stanca. Si descrive scioccata. Amareggiata. Demoralizzata. E dice basta. Ha appena 30 anni. Spiega che stava solo cercando di fare bene il suo lavoro e in cambio ha ricevuto un cazzotto in faccia. Non ha avuto nemmeno il tempo di scappare, nessuna possibilità di difendersi. Dice che adesso non ha abbastanza forza per poter reagire, non sa ancora se tornerà a lavorare in Pronto Soccorso. Se lo farà, confessa, sarà per amore verso il proprio lavoro e per il reparto. Possiamo solo sperare che non molli, tornare le farebbe onore ma non si tratta di dimostrare coraggio. Avrebbe anche tutto il diritto di cambiare lavoro e non le si potrebbe dare torto. C'è chi lascia la professione senza ricevere pugni ed estintori addosso.
Anna pensa che sia una violenza di genere. È una donna e in quanto tale capita che qualcuno, che si sente più forte in virtù della propria mascolinità, crede di avere il diritto di alzare la voce e picchiare individuando un soggetto più fragile su cui solitamente è più facile sfogare le proprie prevaricazioni. È un'infermiera contro la quale viene forse più spontaneo, sminuendone la figura sociale, avventarsi con irragionevoli pretese. O forse siamo soltanto i primi che capitiamo a tiro. Forse è proprio perché siamo sempre dalla parte del paziente e vicini a tutto il suo contorno familiare che siamo arrivati al punto da non farci più rispettare, proprio come capita tra i membri di famiglie disagiate dove si tace e si subiscono comportamenti inaccettabili. Abbiamo forse abituato l'utenza a dare loro troppo e ad esserci sempre. E ci siamo abituati a giustificare, a non colpevolizzare, a sopportare.
Anna pensa che sia colpa del sistema sanitario. Che deve cambiare. Dice che gli infermieri devono lavorare in condizioni di sicurezza, che si sono stancati di andare a lavoro e di combattere con pazienti e familiari che vogliono aggredirli, che non capiscono che loro non hanno colpa e che è il sistema sanitario nazionale che non i mette nelle condizioni di lavorare bene. Dice che gli infermieri sono troppo pochi per gestire tutta l'utenza che arriva. Che le aziende sanitarie devono garantire sicurezza nei luoghi di lavoro e dare gli strumenti per poter lavorare nel miglior modo possibile. Ciò significa un numero adeguato di operatori, infermieri e medici. Dice che tutti i giorni gli infermieri subiscono violenza verbale e ci passano sempre sopra. Ma quando ti pestano a sangue, direi che passarci sopra non si può più. Anna dice che gli operatori sanitari hanno bisogno urgente di tutela e di concretezza, non di finto perbenismo.
Le aggressioni agli operatori sanitari sono diventate un fatto ordinario. Il fenomeno di tanta irragionevole violenza, rivolta soprattutto contro il personale infermieristico, non è più occasionale e marginale e si manifesta ovunque ci sia, da parte di pazienti e familiari, un livello di insofferenza e fastidio tale da generare in ferocia, ogni volta sempre più grave, che non trova nessuna giustificazione. È segno di una profonda inciviltà di costume e di mancanza di etica civile. È manifestazione di una violenza sociale diffusa e generalizzata che viene espressa sia facendo esplodere un'auto riempendola di petardi la notte di Capodanno sia facendo esplodere la faccia ad un'infermiera qualche giorno più tardi. Che sia un oggetto o un soggetto non fa differenza, è un malessere insano che spesso ha radici altrove e che ad un certo punto esplode, spaccando tutto. È una rabbia, di varia eziologia, che esce dall'intimità devastata delle persone e devasta il resto fuori. Si esplode. Si implode.
C'è in giro una pericolosa mala cultura, subdola come il cancro , ha commentato Antonio di Palma, Presidente di Nursing Up secondo il quale siamo di fronte ad una drammatica escalation indicativa di un'emergenza senza fine. Considerando che soltanto al Cardarelli di Napoli le aggressioni a medici ed infermieri segnalate nel 2023 sono state cinquanta, ormai si può parlare di un drammatico bollettino di guerra. Siamo stanchi delle violenze. Arrivati a questo punto la militarizzazione degli ospedali è l'unica strada percorribile. Ogni giorno gli operatori sanitari raggiungono il posto di lavoro per curare, non certo per rischiare la vita . Così si è espresso Giuseppe Russo, Direttore generale dell'Azienda locale Asl Napoli 3 Sud.
Se siamo in guerra a tal punto da richiedere presidi armati, del resto già presenti da tempo in molte strutture sanitarie senza essere sempre un deterrente alla violenza, il nemico da cui difenderci è diventato paradossalmente proprio il cittadino di cui ci prendiamo cura. Così che i giorni dedicati all'assistenza si trasformano in giorni di ordinaria follia e i luoghi di cura in campi di conflitto, non solo emotivo. È una violenza che è difficile sradicare con le parole. Serve un cambiamento culturale indagando sui determinanti sociali e, come per ogni male, individuare i fattori di rischio modificabili. Occorre forse riconoscere che per quelli non modificabili, che si annidano nel tessuto sociale e nella natura degli uomini, possiamo soltanto fare in modo, come suggeriva Albert Camus, di ridurre matematicamente le miserie umane. Non avendo potere sugli animi delle persone, possiamo soltanto ridurre il rischio che si generi tale violenza e che si abbatta su di noi.
Dovremmo forse quindi imparare a mettere maggiore distanza, fisica ed empatica, nei rapporti di cura, allontanandoci dalle persone così da difenderci dalle situazioni che ci mettono in pericolo di vita o di essere presi a schiaffi.
Considerando che anche la violenza sui sanitari sta diventando una piaga sociale, non so se esista una cura definitiva, certamente il riconoscimento del fenomeno è stato tardivo se non altro ampiamente sottovalutato. Il malessere sottaciuto, spesso non segnalato dalle vittime. Gli episodi non denunciati. Il disagio sopportato troppo lungamente. Si poteva forse prevenire tale violenza, non tollerando i primi episodi già oltre il limite, facendosi in qualche modo rispettare prima, educando con più forte incisività. Comunicare alla popolazione che gli operatori sanitari non sono un bersaglio da colpire non è evidentemente bastato sotto il profilo culturale.
In ogni caso è innegabile che tutta la faccenda sia davvero uno schifo, come dice Anna. Di fronte al ripetersi di questi episodi diventa sempre più difficile ricordare gli ideali di altruismo ed umanità per i quali abbiamo scelto il mestiere che, nonostante tutto, consideriamo ancora il più bello del mondo. Sinora le nostre convinzioni ci hanno fatto scudo, facendoci sopportare ingiustizie e ingratitudini, da una parte e dall'altra della barricata, grazie all'abnegazione che viene instillata sin dal corso di studi e al profondo senso di appartenenza ad una categoria che rende fieri.
E ancora continuiamo a lavorare bene, fosse anche solo per amor proprio e per conservare quella dignità che nobilita ogni lavoratore anche quando le cose si fanno storte o difficili. Ma davvero ogni tanto si insinua il dubbio e viene da chiedersi se vale la pena tanto sacrificio rivolto ad una società sempre più alla deriva per il diffondersi di disvalori più appetibili dalla massa. Talvolta poi sembra che sia in atto un'amnesia globale collettiva del valore del personale sanitario che, dopo la pandemia, pare essersi accentuata.
Quando ci va bene, siamo considerati ancora indispensabili ma dati per scontati, pagabili a poco prezzo tanto dimostriamo di essere sempre a disposizione. E quando le cose si mettono male, diamo fastidio e diventiamo un peso mai contento. Con noi sembra che certe persone perdano il senso della misura permettendosi atteggiamenti e comportamenti socialmente riprovevoli che non avrebbero con altri. Come se qualcosa, nel rapporto con noi, li destabilizasse.
Forse dovremmo imparare a cambiare registro nel modo di relazionarci con gli assistiti, pur senza perdere la nostra identità ed umanità. Senza dare di meno, dovremmo dare meglio nel senso che, con l'obiettivo di tutelare la nostra integrità e dignità, dovremmo dare in una misura più proporzionata senza più farci in quattro, soprattutto se siamo in pochi. Se mettere uomini armati al nostro fianco ci può dare un senso di sicurezza, dovremmo altresì essere maggiormente formati a riconoscere e a gestire queste situazioni di violenza che mettono a rischio la nostra incolumità ed essere messi nella condizione di educare il nostro stato emozionale in situazioni di forte distress, nonché di essere psicologicamente supportati.
Altrimenti resta soltanto da chiedersi con sconcerto se, alla luce di queste continue aggressioni, la parte di popolazione che si lascia andare alla violenza, liberando i propri istinti emozionali, meriti davvero in fondo la gratuità, l'universalità e l'uguaglianza del sistema sanitario nazionale che tanto è arrivata, dopo 75 anni, a disprezzare e che noi invece continuiamo a servire. E diventa condivisibile la considerazione che sia tutto uno schifo. Poiché sono evidenti gli sforzi che il personale sanitario compie per tenerlo ancora in piedi, t’attrista ed indispettisce che la gentilezza e le attenzioni con le quali ci prodighiamo per garantire comunque l'efficienza del sistema di cura, di cui ogni giorno si annuncia il collasso, non siano considerate o non bastino a colmare l'insoddisfazione dell'utenza.
Tuttavia, dobbiamo riuscire ad andare oltre questa sensazione di profonda ripugnanza, altrimenti corriamo il rischio di crollare psicologicamente anche noi. Dobbiamo farci più forti, meno vulnerabili ed attaccabili. Come dice Anna, è il sistema che deve fornirci gli strumenti adeguati a proteggerci dall'insicurezza e dalla violenza. Ma credo che la maggior parte del lavoro lo dobbiamo fare anche noi, su di noi, se vogliamo proteggerci dalle persone.
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