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Editoriale

L’empatia per il potere

di Giordano Cotichelli

Vediamo questa cartella. La testa non si muove, ma è la voce che accompagna la mano che si allunga indietro per ricevere ciò che è stato chiesto. Un ordine, comune, ripetuto migliaia di volte in ogni tempo. In ogni dove. Quasi un imperativo democratico che rende meno arrogante dire: Mi fate vedere questa cartella?. In un modo o nell’altro l’azione viene compiuta, il desiderio soddisfatto e l’ordine eseguito. Nulla che possa far presagire uno stato di sudditanza, anche se tutto parla di stratificazione professionale, dominanza di classe e inevitabile accettazione dello status quo in un ripetersi routinario senza memoria.

Si è pronti ad essere empatici, ma unicamente per non avere grane

empatia del potere

Vediamo questa cartella Un ordine, comune, ripetuto migliaia di volte in ogni tempo. In ogni dove. Quasi un imperativo democratico.

Portiamo il paziente in radiologia!, Prepariamolo per l’intervento!, Insomma, vogliamo accomodarci fuori, per cortesia!. E molte altre frasi ripetute che sembrano ricalcare al contrario un plurale maiestatis. Come dire, una sorta di pluralis servorum, apparentemente più democratico, ma in realtà non meno gerarchico ed altezzoso.

Un modo di fare molto presente nella sanità, nelle corsie, nei servizi e, più in generale, in ogni ambito lavorativo e relazionale in cui si instaurino rapporti gerarchici di vario tipo.

Niente di nuovo. Così è, così è sempre stato e così sempre sarà, seguendo la stessa linea di quell’orizzonte più rozzo e più noto del: Si è fatto sempre così.

Non c’è tempo e giovinezza d’animo che non abbia provato a rompere questa vischiosa e tossica relazione subalterna. Ognuno di noi si è sempre illuso che in fondo la separazione dei ruoli e la condivisione dei compiti potessero agevolmente convivere allo stesso modo di come si cerca di caricare su di sé la sofferenza ed il bisogno altrui.

È ciò che chiamano empatia e veicola la relazione di aiuto che ogni buon sanitario cerca di attivare. In realtà quella che prende il via è una vera e propria empatia del potere dove chi lo esercita chiede a colui che lo subisce una accettazione totale quanto devota.

La stessa che ha portato centinaia di spettatori di una delle ultime “convention” repubblicane – negli USA - a fasciarsi l’orecchio destro per essere solidali con il capo, sfiorato dal fato e salvato dal destino da una ferita meno pericolosa di una puntura di un calabrone arrabbiato.

L’ex-presidente Trump continua ad esercitare un fascino perverso e diffuso dove agli argomenti di natura economica e politica, idee o progetti di vario tipo, cedono puntualmente il passo all’insulto, alla cattiveria, al rancore, ad un odio fomentato e alternato sapientemente da un vittimismo di maniera.

Chi non è con Trump è un nemico da deridere e da annientare, appartenente ad un mondo da abbattere ed espellere al di là di uno dei tanti muri con i quali si vogliono circondare le confort-zone di un ceto medio frustrato, incattivito e perennemente angosciato dal rischio di impoverirsi. È uno dei tanti fotogrammi di quella pellicola horror che è una certa rappresentazione del nostro tempo. E non da oggi.

Qualcuno forse ricorda il luglio di quasi un quarto di secolo fa, al G8 di Genova, la macelleria messicana realizzata per massacrare chi protestava, mentre l’asfalto di Piazza Alimonda si macchiava per sempre del sangue di Carlo Giuliani. Altri forse ritornano con dolore al massacro di Utøya, in Norvegia dove un terrorista neonazista, amante del saluto con il braccio teso – come qualche giovane italiota – ha massacrato 77 vite umane seguendo un suo personale delirio politico ed eugenetico.

E molto altro ancora, che sembra aver caratterizzato la crescita maligna di questo inizio di terzo millennio dove discriminazioni e disuguaglianze crescono nell’indifferenza totale e nella sudditanza muta, nell’empatia complice, verso chi ne profitta.

Il welfare scompare lasciando spazio al mercato delle armi e delle vittime in Ucraina, a Gaza, e un po’ ovunque e, dal canto suo, l’Italietta provinciale e meschina mostra ogni giorno il suo volto femminicida ed indifferente ai morti sul lavoro, ossequioso con le ruberie dei colletti bianchi e intransigente verso ogni tipo di miseria umana.

Qualche giornalista e qualche gay ogni tanto viene pestato e quando la situazione sembra sfuggire dal controllo si minimizza, ci si appella alla goliardia del momento. E se ciò non basta, se invece l’empatia della cattiveria diventa quasi ingiustificabile, allora si può sempre cambiare legge o dare la colpa alle stesse vittime.

In fondo, il mondo gerarchico dell’istituzione totale, della città stato ospedaliera, offre molti spunti per conoscere la realtà in cui si vive e l’ipocrisia di un naso rosso alla Patch Adams mal riesce a nascondere la menzogna dell’empatia verso chi soffre.

Sì, certo, ci si può rattristare, anche commuoversi e piangere, ma ad un certo punto si deve andare avanti e non si può perdere tempo, insomma, con chi; deve farsene una ragione, anche perché a che serve disperarsi quando non c’è nulla da fare?

Ecco sì, si è pronti a condividere l’altro, ad essere empatici, ma unicamente per non avere grane. Già, la sofferenza e il bisogno, il dolore e lo smarrimento possono generare compartecipazione emotiva, solidarietà materiale, legami relazionali, ma non quella pia illusione inefficace che prende il nome di empatia, parola che significa “all’interno della sofferenza”, senza specificare però da che parte stare.

Ed allora mentre la piccola bocca cattiva di un miliardario fallito sputa veleno e sentenze, guardando i volti dei suoi ammiratori, tutti pronti a presentarsi a mano tesa dicendo: sono quella stronza di una sua elettrice, si guarda alla sofferenza come ad una malattia contagiosa la quale, in realtà, ci spinge lontani, ci rassicura una volta chiusa la porta del lazzaretto, nella nostra coscienza pelosa che saluta il malato sorridendogli per l’ultima volta, pronti a voltargli le spalle per guardare all’altezzoso uomo con l’orecchio fasciato che in camice ci ripete: Vediamo questa cartella e ci allunga la mano senza ammettere repliche o assenze empatiche di sorta, canticchiando – senza conoscerne il significato - “Simphaty for the Devil”, sapendo di rivolgere il brano dei Rolling Stones unicamente in omaggio a sé stesso.

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