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25 dicembre

Disertori ed infermiere: una tregua di Natale

di Giordano Cotichelli

Ed eccoci arrivati al nostro disertore tedesco. Quanto ha di febbre questa mattina, sorella? La donna ha un portamento marziale, reso ancor più rigido dal mantello blu turchino in dotazione alle infermiere della Croce Rossa. Si è fermata ai piedi del letto del soldato malato. Accanto a lei c’è una suorina intenta a spingere un carrello in metallo smaltato bianco. Sul ripiano superiore ci sono bende, tintura di iodio, qualche pinza all’interno di alcuni recipienti, qualche siringa, qualche altra cosa di non so cosa e una scatola di filaccia. Non molto altro. Nel ripiano in basso, c’è solo un secchio maleodorante e traboccante di bende insanguinate, sporche, infette, cariche di una umanità che se ne sta fuggendo via dai corpi dei rispettivi proprietari. Più volte sarà necessario vuotarlo prima che il giro delle medicazioni abbia soddisfatto le decine di malati presenti nell’ampia camerata dell’improvvisato ospedale da campo. O verso le file di giacigli nella tenda dell’ambulanza, o sotto il tetto d’un ospedale. / Percorso le lunghe distese di brande da una parte e dall’altra, /A tutti, uno dopo l’altro, mi accosto, non ne tralascio nessuno. /Mi segue un infermiere con un vassoio e un secchio, /Che ben presto si riempirà di stracci cruenti, di sangue e, svuotato, non tarderà a riempirsi…

Una tregua Kurt. Una tregua di Natale, ci potevi pensare?

Qualche letto più in là, un vecchio americano, con una lunga barba bianca, saluta con versi improvvisati l’arrivo delle infermiere. L’ospedale dove stiamo, in realtà non è altro che il pian terreno sventrato di una villa padronale bombardata tempo fa. La crocerossina si volta verso la suorina in attesa di una risposta. L’altra cerca in mezzo ad un foglio di carta un numero da riferire. Passa troppo tempo e di tempo da perdere non ce n’è proprio.

Appena fatto il giro delle medicazioni bisogna fare quello della visita, con l’ufficiale medico, poi c’è il rancio (in un ospedale civile si chiamerebbe vitto), poi di nuovo il giro letti e via così fino a notte fonda. Un ospedale è una fabbrica della salute, una catena di montaggio dell’assistenza sanitaria dove tutto può incepparsi da un momento all’altro: un’urgenza, qualcuno che si mette in testa di crepare, o si scopre infettivo e deve essere separato dagli altri; per metterlo poi non si sa dove.

Ho capito sorella, faccio io. Un minimo di organizzazione però deve essere mantenuta, che diamine! Un registro, un foglio a quadretti su cui tracciare un grafico. Un minimo insomma. Mi dicono che negli Stati Uniti addirittura conservano tutta la documentazione clinica in una cartella ben strutturata ed ordinata, ma qui siamo ancora lontani anni luce dall’essere un paese normale. Speriamo che dopo la meritata vittoria, qualcuno, con un po’ di polso, possa prendere in mano le redini di questa scellerata nazione. Sarà difficile. Gli italiani per queste cose sono dei ribelli nati. Un po’ come quel caporale romagnolo dei bersaglieri che ho conosciuto a Milano in ospedale. Grandi cose a parole, ma poi bravo solo a fare l’eroe sulla pelle degli altri.

Florence Nightingale

La suorina tace. Non ha capito molto il senso delle parole della crocerossina, ma è evidente che è molto arrabbiata. Vabbè, ci penso io sorella. Glielo chiedo direttamente come si sente, se aspetto che lei si metta a parlare la lingua dei crucchi.

La voce sembra che arrivi da lontano. Eppure è lì, a pochi passi da me. Capisco poco il significato delle parole pronunciate in un tedesco aristocratico, quanto grammaticalmente diverso da quello che noi, gente comune, siamo abituati a masticare. Capisco che mi chiede se ho la febbre, se la ferita mi fa male. Boh, e che ne so io. Sei tu l’infermiera no? Come dice? Ah sì, che fra poco è Natale e che sarà il primo senza la guerra. Dovrei esserne felice? Forse.

Da questa guerra ho cercato di fuggire in tutte le maniere. Sin dal suo primo Natale, quello di quattro anni fa. Te lo ricordi Kurt quel 25 dicembre del 1914? La bruma ancora stentava a lasciare il limitare dell’orizzonte, che già il freddo del mattino sembrava meno intenso di fronte ad un timido sole che si levava sempre più caldo. I giorni precedenti erano stati così intensi, così carichi di odio e di dolore che l’avvicinarsi della festa religiosa era diventato insopportabile quasi come un ordine del comando generale.

L’aria ora schiariva e, nonostante tutto, sapeva di pulito, quasi il vento della notte fosse riuscito a spazzare via l’orrore accumulatosi nei crateri dell’umanità fatta a pezzi dai mortai. Tirai un lungo respiro di quell’aria pulita. Meglio di una sigaretta. E fu allora che incontrai i tuoi occhi, Kurt. Era un po’ che mi stavi fissando ed io lo sapevo che eri lì, con quello sguardo azzurro che non ammetteva repliche. Avevo fatto finta di niente fino a quel momento.

Inutile che mi fissi a quel modo. Lo so cosa vuoi. Credi che un bel canto corale possa salutare una giornata di quiete. Tu, proprio tu vuoi rendere omaggio al Natale, che l’unica cosa che sei riuscito a fare, durante lo sciopero del birrificio, a Berlino, è stata quella di correre dietro al prete mandato dal Borgomastro per sedarci con la fede delle parabole.

Gli occhi continuarono a fissarmi. La sera prima, nonostante tutto, c’era chi aveva abbozzato qualche piccolo verso. E adesso, con la scusa di rubare tempo e voce alla barba del mattino, riprendevano i passaggi più significativi della canzone di sempre: Notte santa.

Ma ti pare Kurt, dannato socialista ateo e rivoluzionario fallito, che costretti dentro questa palandrana dei morti colori del feldgrau imperiale, possiamo metterci a cantare di santi e Gesù bambini?

Ormai era troppo tardi, le barbe da radere di prima mattina, canticchiando del Natale, erano diventate troppe per impedire che ogni singola musica individuale non si trasformasse in un coro improvvisato, limpido e pulito di suoni che, da settimane ormai, nessuno aveva più sentito. Notte silenziosa! Notte santa! Tutto dorme; solitaria veglia.

Ti sorridevano gli occhi quando vedesti sollevarsi il canto da ogni più piccolo anfratto delle tane per sorci in cui vivevamo da settimane. E fu così che gli ultimi graffi della bruma vennero spazzati via, in modo tale da far apparire all’orizzonte il martirio terreno dei campi di Francia. Non c’era più un albero in piedi, ma solo mozziconi anneriti di tronchi infissi in terra, che si contorcevano in una vana fuga verso il cielo. Un altalenarsi fastidioso e avvilente di crateri e dossi faceva dimenticare che quelli, un tempo, erano stati campi coltivati, strade percorse da carri, orizzonti di vita quotidiana per uomini e donne; e non carne da cannone in armi. Ed ora il ricordo si fa più nitido.

Quella è una bandiera bianca, disse un artigliere renano. Cosa? Dove? Laggiù, vedi? Nello spazio più largo tra i reticolati aperti. Quella là è una bandiera bianca, continuò in tono più marcato, più serio. La vidi. Si vedeva meglio perché si stava avvicinando portata da un gruppo di scozzesi. Dietro di loro, la trincea aveva intonato Silent night, versione inglese della nostra Stille Nacht. Non sapevo neanche della sua esistenza. Non riuscivo a capire cosa stesse accadendo.

Da sinistra stavano arrivando pure tre francesi. Anche loro con una bandiera bianca. I due gruppi avanzavano decisi verso di noi, sempre più vicini. Si mossero anche i nostri. C’era il sergente Max e il tenente di Amburgo. Tutti erano già nella terra di nessuno. Strette di mano. Qualche sorriso. Scambi di sigarette e anche qualche cicchetto di prammatica. Roba buona quella degli scozzesi. Beh, pure i francesi non scherzano. Oh! Il sergente le prendeva tutte: whisky scozzese, cognac francese, sigarette da questo e da quello. Di nuovo i saluti ed ognuno già stava ritornando nei settori di competenza. Poi, l’impensabile.

Stanno uscendo dalle trincee, Kurt, dissi ad alta voce nella mia testa. Quelli hanno in mano delle pale. Anche i francesi e i nostri escono con le pale in mano. Bah! Le nostre sono più belle e pratiche. Tu ci capisci qualcosa Kurt?, mi uscì dalla bocca in automatico. Credo che sia stata dichiarata una piccola tregua di Natale per seppellire i morti, mi rispose l’artigliere bavarese, ed era già oltre il parapetto in cerca delle sigarette dei Tommies! Poco dopo, in mezzo a quella strana fiera di militari, mi ci ritrovai anch’io.

Sguardi, dubbi, sorrisi, pacche sulle spalle. Parole storpiate, sillabate ad alta voce, mimate, masticate, ed infine dimenticate. Alla fine, sigarette e cioccolata, birra, vino e pezzi di galletta parlarono il linguaggio internazionale della fratellanza. Una tregua Kurt. Una tregua di Natale, ci potevi pensare?

Da parte tua non ci fu nessuna risposta, ma io già sapevo che avevo un preciso impegno da assolvere nei tuoi confronti. M’incamminai fra buche e filo spinato, aumentando il passo finché non ti raggiunsi. Eccomi, dannato birraio, renitente alla leva, ribelle scioperato e… morto ammazzato per la gloria del nostro Kaiser. Ciao, brutto. Allungai la mano e finalmente potei chiuderti quegli splendidi occhi azzurri che continuavano a fissarmi da tutta la linea del fronte. Eccomi amico mio. Ci penso io a te. Non ti lascio più. Sembravi dormire.

Dai, ti è andata bene, in fondo non sei stato spappolato come molti altri qua attorno. Ti dò una sistemata, su! Bottoni, tasche, colletto. Via questa terra dal viso, e poi i pantaloni, le mani, ancora terra. E questa scarpa un po’ così? Come dici? Mi chiedi che intenzioni ho? Beh, è chiaro no? Ti porto via da qui. Gli altri stavano seppellendo i morti. Gli ufficiali chiacchieravano e i soldati pure. Alcuni avevano iniziato un’improbabile quanto fantastica partita di pallone. C’era tutto il tempo per allontanarsi da quel posto in maniera indisturbata.

Florence Nightingale

Credo che se mai ho fatto qualche follia nella mia vita, beh! Dopo quella volta non riuscirò più a superarmi. Mentre gli altri seppellivano i commilitoni poco lontano e recuperavano gli effetti personali dei caduti, io stavo trascinando via il corpo del mio amico Kurt Landauer. Davvero fu un’idea folle quella di voler seppellire il mio amico fuori dalla terra devastata di Francia. Ma poi in realtà non era così bislacca.

La famiglia di Kurt abitava poco lontano da dove eravamo. Stava oltre l’orizzonte, appena subito dopo la frontiera. O meglio, quella che un tempo era stata la frontiera fra i due stati che, adesso, avevano scelto di macellare, al mattatoio della guerra, il meglio delle rispettive gioventù. Non so bene come nacque l’idea. Forse al momento, approfittando del varco nei reticolati della disciplina militare, creato dalla tregua. Sì, fu tutto dannatamente improvvisato.

Avevo bisogno di un’ambulanza. Raggiunsi il Posto di soccorso. Chiamai Ottilie. Ottilie Moss, la giovane infermiera in servizio da noi. Non le spiegai nulla, le chiesi solo dov’era l’ambulanza. Mi accompagnò nel casottino dell’autista, un certo Friedrich, filosofo a tempo perso, ampi baffi sotto il naso e meno ampie capacità di guida. Mi aiutò con Kurt. Lo caricammo sul mezzo e, quando ero prossimo alla partenza, mi guardò implorante e disse: Ascolta, non so come ti chiami e non lo voglio sapere. Io sono qui da poco e credo che presto, al di là del bene e del male, me ne andrò. Fai come vuoi, ma non contare su di me per guidare quel coso lì, che ai miei tempi neanche esisteva.

Barelliere e filosofo, e soprattutto libero da ogni gerarchia da seguire e da permessi, documenti o stronzate cartacee varie da reclamare. In pratica un disertore della burocrazia militare e sanitaria, che si stava rendendo complice di sottrazione e occultamento di cadavere. Mentre ci allontanavamo, io e Kurt, lo guardai dallo specchietto retrovisore e non mi sembrò in alcun modo preoccupato di quanto stava accadendo. Ottilie accennò ad un saluto e girò su sé stessa per tornare in infermeria.

Era Natale. C’era una tregua, anche se non ufficiale, ed io, in pratica, stavo scappando via dal fronte

Questa testa non mi dà pace, pulsa e rimbomba di una febbre carogna che non vuole lasciarmi. Il petto mi opprime, brucia. Respirare è un problema. Ci vorrebbe del chinino, almeno un po’ di chinino. Apra bene la bocca che le faccio un paio di pennellature. Iodio, ancora iodio! Come se servisse a qualcosa! ‘Sta marescialla col velo, che crede di sapere il tedesco. È come un grande predatore, sente l’odore della febbre lontano un miglio. La tintura serve – diamine, la tipa legge nel pensiero! - brucia i germi, l’infezione passa e la febbre va via. Certo con il chinino sarebbe meglio, ma non ce n’è più! E ne abbiamo dato di più a voi prigionieri che ai nostri.

La febbre per un attimo mi ha mescolato i ricordi di ieri e la realtà di oggi. Altro che i campi di Francia. Sono qui, prigioniero, in un ospedale italiano. Anzi, non credo di essere proprio prigioniero, perché pare che la guerra sia finita. Ad ogni modo sono lontano da casa, perso nello spazio e nel tempo della memoria che fugge e della febbre che resta.

Dove ero rimasto? Ah sì! Al ritorno di Kurt a casa. Le cose andarono bene. Riportai il ragazzo dai suoi, che lo seppellirono di nascosto. Io presi la strada del ritorno. Ero quasi arrivato al distaccamento quando un gruppo di riservisti bavaresi fece la sua comparsa dietro un posto di blocco tracciato da due asfittici ed improbabili tronchi incrociati in terra. Lei, dove sta andando con quell’ambulanza? L’Ospedale da campo e dall’altra parte non lo sa?

Sì, sì, torno proprio da là e vado verso la mia unità, provai a mentire. A quest’ora? – mi fa un caporale magro con due occhi spiritati ed un paio di baffi alla Charlie Chaplin – mi faccia vedere i suoi documenti. Dopo quelle parole gli avvenimenti hanno subito una certa accelerazione.

Il caporale bavarese, che aveva più un accento austriaco a dire il vero, si arrabbiò molto. Cominciò ad inveirmi contro, a darmi del disertore, del traditore della patria, vigliacco, ebreo, e … non ricordo più cos’altro. Buona parte delle accuse furono riprese dalla corte marziale che di lì a qualche giorno mi processò. Scampai il plotone d’esecuzione per un pelo, ma mi feci, dopo un sano (si fa per dire) periodo di rieducazione marziale in un battaglione di disciplina, tutti i posti peggiori della guerra: Fiandre, Prussia Orientale, Galizia e di nuovo Fiandre, per finire poi sul fronte italiano.

Ero aggregato ad un battaglione che correva avanti a tutti, punta estrema di quella che chiamarono straffen spedition e che vide gli italiani ritirarsi per chilometri e chilometri di fronte al crollo verticale della tenuta del fronte. Con noi c’era un tenente piccolo ed ambizioso. Si chiamava Rommel e teneva alle medaglie in maniera inversamente proporzionale alla considerazione che aveva per la vita del genere umano. Io, che continuavo ad essere considerato un vigliacco da punire e rieducare, venivo sbattuto sempre in avanscoperta, nelle azioni più pericolose. Spesso arrivavo a ridosso delle fragili linee italiane. Qualche volta le superavo pure.

Una volta vidi un generale che diede la colpa di tutta la ritirata ad un soldato semplice, reo di non essersi tolto il sigaro di bocca al suo passaggio. Il tipo ancora doveva rendersi conto di cosa stesse accadendo che già era cadavere ai piedi di un plotone d’esecuzione il quale, non aspettò un minuto per proseguire la ritirata. In questo però accadde qualcosa di strano; come se ammazzare un uomo per un sigaro fosse normale.

Un’ambulanza arrivò di corsa dal fondo della strada, sbucando da chissà dove. Superò, quasi travolgendoli, i soldati con i fucili ancora caldi dei colpi sparati e si diresse verso il gruppo di ufficiali dove si era attardato il generale. Li superò non senza però fare attenzione ad inforcare una buca piena di fango che intonacò di marrone tutto il gruppo. Alla guida del mezzo, che aveva le insegne della Croce Rossa Americana, c’era un tipo alto e robusto, che non mancò di sottolineare in inglese il suo disprezzò per il gruppo. Poi… poi tutto fu molto più difficile e delle settimane che seguirono ricordo poco o niente.

E poi, poco tempo fa, sono stato catturato mentre vagavo sbandato in cerca della strada di casa. Non ricordo come sia stato, ma so che nel giro di pochi giorni in mezzo a noi prigionieri abbiamo cominciato a sentire ripetutamente qualcuno che tossiva di una tosse cattiva e insistente, che velocemente cambiava di padrone. Tosse d’autunno, tosse di guerra. Ed alla fine l’ho presa anche io

Passerà, speriamo. Passerà perché deve passare. Andrà tutto bene! Non posso perdermi il primo Natale di pace ed il secondo Natale di una tregua di cui tutti abbiamo fortemente bisogno

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