Per tutta la notte di San Silvestro e il primo giorno dell'anno le ambulanze sono passate decine di volte sulla strada di casa mia, crocevia poco distante dall'ospedale. Esotossicosi alcoliche, coma etilico in giovanissimi che hanno sballato nelle feste private, coliche addominali per le abbuffate del cenone, traumi per aver sbandato con l'auto hanno affollato, come ogni 1° gennaio, il Pronto soccorso, a Vicenza come altrove.
Stiamo facendo la storia e nemmeno ce ne rendiamo conto
Qui è stata anche una notte di sangue, un uomo è stato ridotto in fin di vita a calci e pugni proprio a due passi dalla Centrale Operativa del 118, in una lite tra condomini, pare per droga.
Come ogni principio d'anno ingordigia, follia, violenza sono l'eziologia di tanti malanni. In tarda mattinata, quando la gente in giro è ancora poca e mi godo una solitaria passeggiata con il cane, incontro un'automedica che vola, tanto corre veloce al centro della carreggiata. Per un attimo mi ha ricordato l'auto di Doc in Ritorno al futuro.
Ogni anno è sempre la solita storia, la gente che si diverte sino a stare male e i sanitari che vanno a raccogliere i pezzi e li rimettono insieme. Mani e dita bruciate e scoppiate dai fuochi d'artificio, corpi politraumatizzati da immobilizzare, organi e visceri messi a dura prova da eccessi e bagordi. E come ogni notte, anche quando non è santa, i sanitari sono smontati da tutto quello che hanno fatto e se ne vanno a dormire, lasciando il primo giorno al mondo.
Respiro il profumo intenso di un calicanto in un giardino e, passando di fronte all'ospedale, mi ritorna in mente un ricordo di bambina. Sorrido. Tenevo la mano di mia madre mentre percorrevamo il corridoio della radiologia andando verso qualche visita medica. Da grande farò l'infermiera, mamma. Ma sei matta? Perché vuoi fare l'infermiera? Perché mi piace tanto l'odore dell'etere e il suono delle sirene
.
Avevo forse otto anni. L'etere lo hanno con il tempo vietato e sulle ambulanze ci sono salita soltanto durante il tirocinio universitario e come soccorritore in Croce Rossa, ma sono diventata infermiera per l'adrenalina che mi davano i lampeggianti blu e il disinfettante che mi pareva un buon profumo. Sono infermiera perché sin da bambina ero affascinata dagli uomini e dalle donne che sfrecciavano sulle strade per andare a salvare qualcuno. Erano la mia idea di eroi. Senza nome. Ancora oggi cerco di individuare i loro volti a bordo quando mi passano vicino. Niente, vanno sempre troppo veloci.
E quando da grande è capitato che questi eroi li hanno chiamati per soccorrermi, erano volti amici. Li chiamavo per nome, ci lavoravo insieme, mi portavano la gente in Emergenza 1, 2 o 3. Mara, nella mia incoscienza ho sentito la sirena che si avvicinava e poi la sua voce che mi risvegliava mentre mi prendeva una vena. Diego, che ha salvato mio figlio neonato da un'ostruzione delle vie aeree e che ancora se lo ricorda e mi chiede come sta. Vuole fare l'infermiere del 118, Diego. Bene, gli insegno io
. Lucia. Valentina e tutti gli altri amici, che gli altri disgraziati che vengono soccorsi non sanno neanche il loro nomi. Sono soltanto gli infermieri. Che salvano le loro vite. A volte senza grazie. Non c'è tempo. Non sono coscienti. Non sanno chi sono, dopo. Restano sempre anonimi. E comunque, in ogni caso, raramente ci chiedono come ci chiamiamo.
Mentre mi tengo nel cuore queste riflessioni, cambio il calendario e ci appunto i sogni del 2022. Alessandra mi manda il suo augurio per l'anno nuovo. È un'amica, oltre che un'infermiera. Mi rendo conto improvvisamente che non c'è differenza, ho solo infermieri tra gli amici più intimi. Tra gli amici, che gli altri non ne ho più. Dopo il Covid. Come se ci capissimo veramente soltanto tra di noi. Si ricercano i simili, quelli che ci somigliano, che vivono la stessa vita.
Anche lei ama informarsi su quel che capita nel mondo e nella sua quotidiana rassegna stampa si è profondamente commossa leggendo una lettera inviata da una giovane diciannovenne, figlia di un'infermiera. Mi manda l'articolo. Lucia ci dice semplicemente grazie con parole toccanti. Non perché ci chiama eroi. Quel che conta davvero è che ci chiama amici. Riconosce umanamente il nostro valore. Desidero riportarvi le frasi che ho trovato più significative, che certamente fanno bene a ciascun sanitario, in ogni circostanza in cui sono chiamati ad operare. Dovremmo tenercele sempre a mente.
Lucia ha ragione. Stiamo facendo la storia e nemmeno ce ne rendiamo conto. Non badiamo nemmeno se qualcuno ci ringrazia, ci sentiamo imbarazzati. Cosa vuole che sia, è il nostro mestiere. Siamo qua per questo
. È questo che ci troviamo a dire quando ci ringraziano. Ci siamo sempre per la gente, ma siamo sfuggenti ai complimenti.
Per noi è normale essere come siamo. Ma non siamo normali, forse è bene che lo capiamo. Ci vuole una buona dose di altruismo e di coraggio. Ci vuole cuore per prendersi cura della vita di una persona. Fegato per fare certe manovre sul corpo di un altro. Cervello per sapere perché lo si fa e saperlo fare bene procurando un beneficio senza recare alcun danno.
Non è normale vedere cose che il resto degli umani non vede. La notte poi sarebbe fatta per dormire, i sanitari invece la passano a salvare e a vegliare. Molti fanno la vita di Nicholas Cage in "Al di là della vita", il film diretto da Martin Scorsese liberamente tratto dal romanzo "Bringing out the dead" di Joe Connelly. È la storia di Pierce, un paramedico per il servizio delle emergenze newyorkese, destinato ogni notte ad affrontare i casi più gravi, sempre a stretto contatto con la vita degli altri che stanno male. È un uomo in missione che dopo una vita circondata da morti, feriti e malati è vicino al punto di rottura. Anche se la trama ha una visione allucinante, io mi sono spesso rivista in certe situazioni drammatiche e in pensieri e stati d'animo esasperati.
La notte incominciò con un boom. Un colpo sparato al petto in un affare di droga andato a puttane. C'erano tutti gli elementi giusti per un lungo week end. Calore, umidità, chiaro di luna. Ero bravo nel mio lavoro. C'erano periodi in cui le mie mani si muovevano con una velocità ed una bravura più grandi di me. Ma nell'ultimo anno avevo cominciato a perder quel controllo. Le cose si erano messe male. Non salvavo qualcuno da mesi. Mi ci voleva una notte calma seguita da qualche giorno di riposo. Salvare la vita di qualcuno è come innamorarsi. È come salvare la tua stessa vita
.
Ma come concessione il capo non va oltre un paio di giorni di malattia: impossibile fare a meno di uno dei pochi angeli caduti dal cielo, disposti a sacrificare la propria vita per provare a salvare quelle degli altri. Racconta il regista. Così che il protagonista arriva a capire che il mio ruolo non era tanto salvare vite umane quanto essere testimone, ero uno straccio per il dolore, bastava fossi presente
.
Ci vuole attitudine e predisposizione d'animo per fare l'infermiere
Ce lo scegliamo. Ma dobbiamo riconoscerci il nostro valore. Ogni infermiere - in corsia, sulle ambulanze e nelle case – deve sentirsi orgoglioso senza che sia qualcuno a rammentarci che dobbiamo esserlo. La fierezza nasce dalla consapevolezza del nostro valore e ci rende migliori come persone. Se abbiamo coscienza che valiamo, ci sentiamo più sicuri. Il sapere professionale ci rende forti nel fare, il sentirci fieri ci fa esprimere meglio. Nella relazione diamo di noi l'immagine che ci sentiamo dentro.
Trovo che gli infermieri tendano ad essere sempre troppo umili, a sminuirsi verso la gente che assistono e verso i medici con i quali collaborano. Riconoscere il proprio valore non è superbia o arroganza. È essere il proprio valore. Il grazie non ci importa. Non ci importa nemmeno sentirci dire eroi.
Ma quel riconoscimento sociale ed economico che sentiamo tuttavia doveroso che la società ci dia - e che aspettiamo da ben prima della pandemia - non arriverà mai se non tiriamo fuori l'orgoglio. Bisogna alzare la testa, ma per noi stessi non per essere qualcuno per il mondo. Soltanto così quell'orgoglio, dapprima personale e poi di categoria, può essere visto anche dalla società.
Non sono mai sorpresa quando i pazienti mi chiamano dottoressa per il mio modo di pormi. Probabilmente di fare e di parlare. Sono io, sono fatta così. È il mio modo di essere persona prima che infermiera. Fare l'infermiera è un ruolo che si veste anche di quello che siamo. Perché in questa infermiera ci sto dentro io. Nell'immaginario sociale si ritiene forse che l'infermiere non sappia ben parlare, oltre che fare. Sono un'infermiera
, informo. Ah
, rispondono. Sono loro ad essere ogni volta sorpresi. La loro reazione è la conferma della percezione sociale della figura dell'infermiere ed è questa visione che mi indispettisce.
Forse siamo infermieri proprio per come siamo fatti. Se fossimo fatti diversamente, avremmo probabilmente fatto altro nella vita. Pertanto ricordiamoci davvero di splendere, anche quando sembra che nessuno se ne accorga. Ciascuno a modo suo, con il suo carattere e nella sua natura, e nel suo posto. Che splendere non è apparire e sfoggiare una luce che non è la nostra.
Splendere è far vedere semplicemente quello che si è, con quella luce negli occhi che non si può nascondere. È essere semplicemente noi e fare in modo che naturalmente la gente resti illuminata dalla luce che abbiamo. Perché splendere non è vanità. Splendere è volersi bene e continuare ad illuminare la nostra anima e la nostra vita professionale.
È ora che possiamo immaginare quanto valiamo. Di diventare ed essere ciò che si è. Perché abbiamo davvero un valore aggiunto. Lo tiriamo fuori ogni giorno. Riconosciamocelo. Diciamocelo.
Grazie, Lucia.
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