Se le infermiere e gli infermieri di tutto il mondo rappresentano degli indicatori professionali delle tensioni sociali, in questo 12 maggio 2023, basta solo guardarsi attorno e rimboccarsi ulteriormente le maniche per essere il motore del cambiamento per una società più giusta, equa e libera.
Riflessioni attorno alla giornata internazionale degli infermieri
Stazione Centrale di Milano, un pannello pubblicitario recita: “Pane, amore e sanità”. L’immagine, che accompagna lo slogan, è quella di un’infermiera rubiconda, sorridente e con una cuffia in testa, con tanto di croce bianca – tipo bandiera svizzera – sopra. Scelta pubblicitaria a cura del Ministero della Salute per festeggiare i trent’anni del Servizio Sanitario Nazionale.
Sì, si sta parlando di qualche anno fa, per la precisione del 2008 (Governo Prodi II) con Livia Turco allora Ministro della Sanità. Già da qualche anno, con l’aziendalizzazione e la regionalizzazione (riforma del Titolo V della Costituzione), è iniziato il depotenziamento del SSN. I presidi territoriali rappresentati dall’organizzazione capillare e universalistica delle USL, e dagli ospedali locali, vengono spazzati via progressivamente da rimaneggiamenti ed accorpamenti di ogni ordine e grado.
Nei fatti c’è ben poco da festeggiare, specie con lo stereotipo del classico viso di un’infermiera bella e felice. I successivi tre lustri registreranno un progressivo peggioramento dell’offerta sanitaria: liste di attesa infinite, aumento della spesa farmaceutica a carico delle famiglie, ricorso al privato in maniera crescente, a fronte di prestazioni pubbliche che avrebbero dovuto essere garantite, dato che erano già state pagate con la tassazione.
Si chiama out of pocket ed è l’indicatore del peggioramento delle condizioni del welfare sanitario. A questo poi si aggiungerà nel tempo la progressiva diminuzione dei medici di Medicina generale, la riduzione dei posti letto, delle prestazioni ambulatoriali e diagnostiche, abbinate all’aumento delle problematiche di salute e all’impoverimento progressivo della popolazione.
Alla fine non resta che l’ultima spiaggia delle sempre più affollate sale dei Pronto soccorso dove le risposte sanitarie saranno regolamentate dai codici colore della pratica del triage di diretta derivazione dai teatri sanitari delle guerre passate. Nelle sale dei Pronto soccorso italiani, lungo i decenni, si consumerà l’ultima tragedia dell’utopia egualitaria di questo paese.
Ore ed ore interminabili di attesa, conflittualità fra operatori e pazienti, e medicina difensiva, accompagneranno il crollo definitivo dell’ultimo luogo di salute pubblica assediato giocoforza dalla disperazione di professionisti e di utenti senza più un rifugio sicuro. I posti letto di ieri sono diventati posti in residenze a pagamento.
Ripensando al pessimo slogan del 2008, in pratica il pane se lo sono mangiato volutamente i signori del Palazzo, l’amore è finito e la sanità, quella considerata una delle migliori al mondo, è un pallido ricordo del passato; nonostante la bravura dei professionisti e la salute collettiva delle persone la quale ancora rappresenta un discreto prodotto di una società ricca e con abitudini pressoché buone (es. dieta mediterranea). Ma il tutto ormai non è più in grado di reggere lo tsunami che sta sconvolgendo da anni il Bel Paese e di cui le ricadute, tragiche della pandemia, sono solo una delle ultime e più manifeste conseguenze negative.
Stazione Centrale di Milano, un pannello pubblicitario recita: “Come stai? A Unisalute importa” e l’immagine che, questa volta, accompagna lo slogan, è quella di un’attrice famosa, in una posa morbida, con un sorriso che non riesce ad illuminare oltremodo il volto solare che trasmette fiducia e sicurezza.
Sono passati quindici anni dal pannello del Ministero della Salute e, sulla stessa parete di ieri, il messaggio attuale è di tutt’altro tenore. Tende una mano amica, conscia dei tanti problemi, indica a chi rivolgersi e come tutto sarà meno difficile di come lo sia ora. Se puoi permetterti di pagare. Ma questo ancora non è poi un grandissimo problema, fatta eccezione per i 5,6 milioni di poveri assoluti, più gli 8 milioni di poveri relativi, i quali sommati rappresentano il 23% della popolazione italiana.
Quasi un quarto di un paese in cui 3 milioni circa di persone restano poveri anche se lavorano. Un quadro drammatico veicola l’idea malsana che, per avere due lire in più in tasca, sarebbe meglio non pagare più le tasse. E pagarsi da sé la sanità quando serve.
Cosa significhi questo in realtà e quasi banale sottolinearlo. Per capire la follia di tale pensiero basta volgere lo sguardo verso i paesi in cui la salute è stata trasformata in un oggetto di mercato piuttosto che in un segno politico e culturale di modernità e giustizia sociale.
Il quadro descritto mostra che, alle porte della giornata internazionale degli infermieri, la situazione dunque non è tra le migliori nel nostro paese, per un problema di sistema e per un problema di professionisti. In tal senso, la Presidente della FNOPI ha sottolineato come nel prossimo decennio andranno in pensione circa 100.000 infermieri i quali difficilmente potranno essere sostituiti, in maniera adeguata, dai bassi numeri della formazione, considerando poi che una certa quota di infermieri italiani continua ad andare a lavorare all’estero.
In realtà si stima che poco meno di 50.000 infermieri hanno lasciato il Bel Paese nell’arco di circa un ventennio. Colleghi preparati che, sottolinea ancora la Presidente, difficilmente potranno essere sostituiti da personale proveniente da altri paesi, specie da quelli maggiormente distanti dagli standard europei, dove la preparazione sembra più simile a quella necessaria ad essere più un personale di supporto all’assistenza che altro.
In tal senso la Presidente auspica iniziative politiche al fine di rendere maggiormente attrattiva la professione. Parole di rilievo che meritano di essere sottolineate. Affermare che in alcuni paesi vi sia una preparazione più a livello di OSS che non di infermieri, alle porte della giornata internazionale dell’infermiere, è criticabile sul piano contenutistico e su quello della forma.
Se si è convinti che il personale che arriva in Italia da alcuni paesi non abbia la preparazione sufficiente, questo è un problema tecnico e legislativo. E non ci vuole molto a “presidiare” il rispetto o meno degli standard professionali richiesti per esercitare nel nostro paese. Farne un’argomentazione rivendicativa non va bene affatto, e rischia di essere solo in linea con il trend culturale dominante del momento. Molto brutto.
Se la questione invece è di natura culturale, si rischia forse una qualche sostituzione etnico-infermieristica? Meglio fare qualche verifica. I dati attuali confermano una presenza circa del 10% (38.000 circa) di professionisti in Italia formati in altri paesi. Numerosità stabile da almeno un decennio, in un quadro tale che non dovrebbe destare preoccupazioni oltremodo, a meno che non si tema un’invasione di infermieri dalla Tunisia e dall’India, paesi dove sembra ci sia interesse per prossime importazioni di mano d’opera.
In realtà il numero ed i dubbi sulla preparazione dei professionisti assistenziali dovrebbero riguardare il personale di supporto, ma in questo caso molto spesso lo stesso è stato formato in Italia e probabilmente presto sarà ulteriormente riqualificato in mini-infermiere o super-oss (scegliete voi) se passa la normativa relativa alla nuova figura dell’aiutante infermieristico o “XX”, in quanto ancora non è stato ben inquadrato.
Vero che in questo caso però si sanerebbero molte situazioni lavorative in cui si vengono a trovare tantissimi OSS molto spesso costretti ad eseguire compiti senza poter avere a disposizione, nell’immediato, la supervisione infermieristica. Il tutto, alla fine, mostra un panorama assistenziale alquanto complesso che non può essere liquidato né da piagnistei vari, né da improvvide guerre fra poveri in difesa di territori di competenza, ma, proprio nella giornata internazionale dell’infermiere, dovrebbero assumere un respiro ampio fuori da nazionalismi gretti e corporativismi frustranti.
Ecco, in tal senso è giusto ricordare come, fra medici ed infermieri, quasi il 50% (56mila medici e 125.500 gli infermieri) si considera in burnout e vorrebbe licenziarsi, in un contesto ospedaliero dove si registrano circa 92.000 errori l’anno. Rendere attrattiva la professione di conseguenza diventa un compito arduo.
Anzi, si dovrebbe cominciare a considerare il pericolo del contrario, stante le pessime condizioni di lavoro e di salario, di sicurezza e diritti, presenti in Italia, c’è il rischio che nel tempo si arriverà alla professione infermieristica, e a quella assistenziale di supporto, come scelta “meno peggio” rispetto a quanto offerto dal mercato del lavoro, in una lotta distruttiva al ribasso.
Rimboccarsi le maniche per essere motori del cambiamento
L’ascensore sociale è fermo da decenni nel nostro paese, ed anche quello infermieristico che ormai da diversi anni non riesce a superare, con gli iscritti alla FNOPI, neanche il mezzo milione di individui. Insomma pare prospettarsi un ritorno al passato. Il problema sono dunque gli infermieri da paesi stranieri? Extraeuropei? Più che per noi, questo rappresenta un grande problema per quegli stessi paesi poveri di Sudamerica, Africa e Asia colpiti dal fenomeno del brain drain, cioè il furto di professionisti operato dai paesi ricchi a danno dei paesi poveri.
In Nigeria, ad esempio, negli ultimi cinque anni, se ne sono andati 57mila infermieri e 5mila solo nel 2021 in Zimbabwe. Paesi da cui forse trarremo il modello dell’assistente infermiere, lì presente, in molti casi, da parecchi decenni e funzionale a radicare un’infermieristica sul territorio, formata in maniera tale che possa essere all’altezza del mandato professionale ma che non abbia i requisiti per emigrare.
Se poi la vogliamo dire tutta: chi lascia la propria terra rappresenta da sempre un valore aggiunto per i paesi di arrivo e una perdita di capitale sociale per quelli di partenza. Avere dei professionisti formati in paesi dove le risorse sono limitatissime, significa avere professionisti in grado di far fronte egregiamente a molte difficoltà lavorative ed assistenziali di quanto non riescano a pensare le teste d’uovo nazionali.
Alla fine, nella giornata internazionale dell’infermiere, si dovrebbe ragionare in termini di sistema: quello sanitario che peggiora, quello internazionale che è espressione di un unicum professionale e sullo stesso sistema paese che, mentre gli imbonitori dei media distraggono le masse parlando di bonapartismi o ducismi di governo, toglie pezzo dopo pezzo dignità, salari, welfare, futuro a chi dovrebbe diventare cittadina e cittadino italiano, infermiera e infermiere in un paese moderno, democratico, avanzato.
E poi se la giornata internazionale dell’infermiere rappresenta un valore condiviso, un momento professionale collettivo proiettato verso la comunità sociale, all’interno di un quadro storico che sia lezione di vita, va ricordato doverosamente, come questo paese, nella sua rappresentanza professionale, fu buttato fuori dall’ICN (International Council of Nurses) cento anni fa circa, perché la professionalità era fortemente connotata da caratteristiche ideologiche del fascismo di allora. E l’ICN fece bene.
Se le infermiere e gli infermieri di tutto il mondo rappresentano degli indicatori professionali delle tensioni sociali, in questo 12 maggio 2023, basta solo guardarsi attorno e rimboccarsi ulteriormente le maniche per essere il motore del cambiamento per una società più giusta, equa e libera.
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