C'è qualcosa di sbagliato nella salute globale. È indubbiamente giusta l'aspirazione di una copertura sanitaria universale proposta dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, così come è doveroso costruire un futuro in cui le persone di ogni paese possano avere pari accesso ad un'assistenza sanitaria di qualità. Ma è altrettanto giusto e doveroso che anche operatori sanitari e ricercatori, indipendentemente dal paese di residenza e di origine, ricevano pari opportunità - in riconoscimento, ricerca e pubblicazione, formazione, accesso a viaggi internazionali per lavoro e conferenze, stipendi ed incentivi - in modo che ogni esperto in sanità proveniente da un paese a basso e medio reddito (LMIC, Low and Middle Income Countries) sia considerato equivalente alle sue controparti dei paesi ad alto reddito (HIC, High Income Countries).
La via da seguire nella decolonizzazione della salute pubblica
Sono le premesse degli autori dell'editoriale “La via da seguire nella decolonizzazione della salute pubblica” pubblicato su The Lancet Global Health. Nelle conclusioni essi esprimono che questo futuro possibile, in cui tutte le differenze tra sanitari sono cancellate e le disparità sono abbattute, è ancora purtroppo soltanto immaginato. Utopico. Tuttavia, Adhikari, Torres e Oele propongono alcune importanti raccomandazioni per aiutare la decolonizzazione della salute globale.
Secondo gli autori dell'articolo è in corso infatti una forma di pratica coloniale moderna, promossa dalle politiche dei paesi ad alto reddito che, per risolvere la grave carenza di operatori sanitari, incoraggiano la migrazione dai paesi a basso e medio reddito così da migliorare i propri sistemi sanitari in crisi di personale.
Se è vero che la fuga dei cervelli è un fenomeno diffuso ovunque nel mondo poiché i cervelli vanno ad un certo punto dove hanno la possibilità di essere valorizzati, questa migrazione non si svolge tuttavia mai in senso contrario. Questo flusso unidirezionale destabilizza i sistemi sanitari dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo.
La scarsità di operatori sanitari e le risorse insufficienti sono urgenti e drammatici problemi di salute pubblica internazionale, così come la pandemia ed altre malattie come l'HIV e la tubercolosi.
Sono problemi prioritari che richiedono finanziamenti importanti e che non si risolvono sottraendo le risorse dei sistemi più fragili. Secondo gli autori le agenzie di finanziamento dovrebbero stanziare budget adeguati per incentivare gli operatori sanitari e i ricercatori dei paesi a basso e medio reddito a non migrare verso quelli ad alto reddito. Se ci fossero finanziamenti rivolti in tal senso sarebbe forse addirittura possibile invertire questa tendenza migratoria.
Gli autori suggeriscono inoltre che l'Oms ed altre organizzazioni multinazionali dovrebbero richiedere l'impegno dei paesi più poveri a dare priorità e ad investire sul personale sanitario, nonché quello dei paesi più ricchi di formare il proprio personale e di ridurre così la migrazione verso i loro sistemi sanitari più attraenti. Trattenere i propri operatori sanitari dovrebbe essere la massima priorità per i paesi poveri e uno sforzo globale congiunto per non creare disequilibri.
Gli autori ritengono inoltre che un'altra decisiva priorità sia quella di migliorare la capacità di ricerca dei paesi LMIC attraverso la cultura della ricerca e la globalizzazione delle sperimentazioni cliniche.
È noto, inoltre, che i partenariati internazionali guidati da finanziatori e ricercatori HIC reclutano meno partecipanti allo studio da quelli LMIC. Questi studi mancano quindi di un requisito fondamentale, la generalizzabilità globale. Gli studi clinici dovrebbero essere considerati cambiamenti nella pratica solo se reclutano partecipanti internazionali, rappresentativi di ogni regione dell'Oms.
Una globalizzazione vera delle sperimentazioni, davvero inclusive, migliorerebbe la capacità di ricerca e la cultura della ricerca nei paesi a basso reddito, nonché la qualità generale, l'erogazione e l'accessibilità dell'assistenza sanitaria.
Gli autori ritengono che l'inclusione inadeguata dei ricercatori e dei partecipanti dei paesi LMIC negli studi clinici di grande impatto e rilevanza abbia portato alla dipendenza dalle linee guida cliniche elaborate secondo le impostazioni dei paesi HIC. L'utilizzo di tali linee guida potrebbe essere inappropriato e addirittura dannoso nei contesti LMIC.
Considerando che le linee guida, per essere universali, devono servire più contesti, è opportuno che nella progettazione e nella sperimentazione di uno studio clinico ci sia il coinvolgimento precoce anche degli esperti di salute dei paesi LMIC. Poiché potrebbero essere necessarie linee guida specifiche per regione, nell'articolo si suggerisce che le maggiori riviste scientifiche internazionali potrebbero mettere a disposizione una piattaforma per conferire riconoscimento internazionale e pari dignità alle varie linee guida pubblicate.
Gli operatori sanitari non sono merce di scambio
Riflettendo sulle considerazioni presentate su Lancet, penso che gli operatori sanitari non siano merce in vendita e di scambio. Da importare per avere lavoratori specializzati così da coprire servizi e attività produttive carenti, come si fa con operai minatori e braccianti. Da richiamare verso una terra promessa con l'allodola di stipendi più alti e condizioni di vita migliori. Da acquisire e fare propri, per la cura della propria popolazione senza curarsi della cura che viene a mancare ad un'altra. È un fine egoistico, privo di equità, che risolve marginalmente il problema in qualche regione.
Senza voler distinguere necessariamente gli infermieri da tutte le altre categorie di lavoratori, ritengo che ogni paese dovrebbe coltivare i propri sanitari, tenerli da conto, farli crescere in numero, forza e sostanza. E capire e risolvere le cause, se mancano. Perché sono persone che imparano ad occuparsi del bene più prezioso di ogni individuo. Senza salute ogni altra attività umana, per quanto nobile e necessaria, sarebbe difficile o penosa.
Le persone poi non sono piantine da sradicare per impiantarle in un altro posto sperando che attecchiscano. Sono semi da far germogliare in terra buona. Senza contare che rinunciare al posto che si chiama casa e a curare la propria gente non è una decisione facile per nessuno
Credo che un infermiere cubano e indiano esortato a lavorare in Italia preferirebbe, come me, esercitare nel proprio contesto culturale e vicino ai propri affetti.
Emigrare in un paese straniero dovrebbe essere una scelta dettata dal desiderio di fare un'esperienza lavorativa diversa e non dal bisogno economico e dalla mancata valorizzazione della propria professione in quello di origine
Se un cervello infermieristico, anche italiano, fugge nel Regno Unito, in Svizzera e in Germania – diventate da qualche anno le nostre terre promesse - dovrebbe poter trovare a Milano e a Napoli le stesse opportunità che trova oltralpe e oltremanica, senza divari tra città e regioni italiane nelle strutture e nella formazione universitaria.
È vero che non siamo tutti uguali, ogni nazione prepara a suo modo i propri infermieri. Ci sono legislazioni diverse. I sistemi sanitari sono variegati, da quelli avanzati a quelli arretrati. Ci sentiamo diversi anche tra noi.
Ci sono infermieri decisamente bravi, migliori. Altri sembrano aver appeso le scarpe al chiodo. Si sono arenati, per tanti ragionevoli motivi. Alcuni sono l'ombra di quello che erano. Hanno dei limiti, non solo fisici. Se potessero, farebbero una figura migliore e farebbero meglio a cambiare mestiere. Gli infermieri più coraggiosi o intraprendenti migrano pure da un paese HIC ad un altro HIC. Sono il top. Gli infermieri hanno livelli diversi di competenza e di valore. Dobbiamo dircelo.
Per tante ragioni siamo ancora distanti dal colmare sia la cronica carenza di personale sia il divario tra operatori sanitari nel mondo. Siamo un problema grande, complesso e generalizzato. Manchiamo ovunque e dovunque, in vari modi, non siamo riconosciuti come pensiamo di meritare.
Abbiamo capito da tempo che sugli infermieri non si investe
Non c'è volontà nemmeno se ci fossero i quattrini. Provano a sostituirci con altre figure, firmano intese con paesi stranieri per assumere i nostri ricambi generazionali e i nostri pezzi mancanti. Come se pensassero “tanto uno vale l'altro”. Come se cercassero la soluzione più facile e veloce. Con contingenza e senza lungimiranza.
Basta far girare, in qualche modo, il sistema. Siamo, in fondo, forse considerati manodopera. Comparto. Ossia messi tutti assieme in una miscellanea ben assortita di figure sanitarie ma messi da una parte rispetto ai medici, distinti tra i distinti. E i lavori fatti con le mani, si sa, sono da sempre pagati poco e male.
Nonostante lo sviluppo della professione infermieristica, non siamo ancora trattati come professionisti anche d'intelletto. Non siamo camici bianchi. Molto dipende dalla cultura, serve un cambio di mentalità. Molto dipende da noi.
È notizia di questi giorni che oltre il 60% degli infermieri non ha superato la prova scritta al maxi concorso pubblico di Torino per assumere personale in sette aziende sanitarie piemontesi. I candidati erano migliaia, riempivano palazzetti dello sport come ai tempi d'oro.
Queste bocciature non ci fanno onore. È una gran brutta figura. Tutto ciò che si potrebbe dire a discolpa non regge. C'è qualcosa forse di sbagliato anche tra gli infermieri. Manca la motivazione, la determinazione? Con il tempo viene meno la competenza? Dipende dall'aggiornamento scarso?
È finito anche il tempo della fuga dei cervelli, preferendo cercare un posto vicino o facile? Come eredi di Florence Nightgale, in tempi così profondamenti cambiati da quelli della signora della lanterna manchiamo forse ancora di qualcosa che ci maturi o ci completi. E che ci faccia tenere alta la testa, meritando quelle opportunità di crescita e quel riconoscimento sociale che tanto rivendichiamo. Da parte delle persone, dei politici. Dei medici.
Abbiamo diritti, tanti. Di una retribuzione migliore, il primo. Doveri, anche. Tra tutti, quello di essere preparati, sempre. Nella professione sanitaria non si è mai arrivati. Avere un lavoro è soltanto il punto di partenza di una formazione continua.
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