Nel 2006 partii come infermiera volontaria per il Congo. Questa incredibile esperienza meriterebbe un capitolo a parte. Racconto solo che ho avuto la malaria e ho creduto di morire , lontana da casa, laggiù, ma non era il mio momento. Sono qui a scrivere, 14 anni dopo, in una fase in cui il mondo è schiacciato da questa bestia nera di nome COVID-19 che semina morte. Ora ho 43 anni e la paura di morire è la stessa del 2006. Sì, perché la paura di morire ce l’abbiamo, ma possediamo pure gli “attributi” di piombo. Siamo infermieri, sulla carta, nella mente e nel cuore e offriamo tutto quello che possiamo. Vorrei che questo mio messaggio arrivasse a tutti i colleghi che offrono quotidianamente del proprio, di lottare con costanza, forti come leoni, per i nostri malati, per la nostra professione, per il bene dei nostri familiari a cui sicuramente teniamo più che a noi stessi.
La lezione che ho imparato in Congo
Forti come leoni della savana affamati di sconfiggere COVID-19. Questo l’ho imparato in Congo
Era il 22 marzo del 2000, mi ero appena laureata in Scienze Infermieristiche. Ero al settimo cielo e pronta per la gran festa che avrei fatto. Non mi sembrava vero, avevo realizzato il mio sogno: diventare un’infermiera. Un mito che sognavo da bambina forse incentivato dagli stati emotivi scaturiti con un cartone animato storico del tempo.
Ero forse una bambina già molto convinta, infatti in un tema di quinta elementare dal titolo “Cosa farai da grande?”, scrissi a mia madre che il mio desiderio era quello di andare in Africa come volontaria ma che prima sarei dovuta diventare infermiera.
Il percorso di studi non fu dei più semplici, colorato anche dai molti cambiamenti storici sanitari che hanno visto l’introduzione dell’obbligo dei titoli universitari per svolgere la suddetta professione. Prima i DUI (Diploma Universitario) in Infermieristica poi la laurea. Li beccai tutti e furono anni alquanto “ardui” .
Di giorno si andava in facoltà a Padova, la sera lavoravo in un Pub e nel tempo libero uscivo con le amiche per un po’ di svago. Tutto normalissimo, ma dovevo e volevo diventare un’infermiera. Nel 2006 partii come volontaria per il Congo . Questa incredibile esperienza meriterebbe un capitolo a parte. Racconto solo che ho avuto la malaria e ho creduto di morire , lontana da casa, laggiù, ma non era il mio momento.
Sono qui a scrivere 14 anni dopo, in una fase in cui il mondo è schiacciato da questa bestia nera di nome COVID-19 che semina morte . Ora ho 43 anni e la paura di morire è la stessa del 2006.
Quando ero bambina e sognavo di fare l'infermiera mi chiedevo cosa avrei fatto in caso di guerra se fossi stata chiamata a soccorrere i soldati in trincea in prima linea. Beh, ci siamo. Stiamo combattendo giorno dopo giorno . La nostra professione purtroppo ci implica delle lotte.
Io non sono in prima linea, assisto pazienti con patologie cardiologiche e nello specifico portatori di pacemaker e defibrillatori impiantabili , ma per far fronte all’emergenza abbiamo effettuato due traslochi di ambulatorio. Ci siamo adeguati tutti uniti noi infermieri dopo l’ordine improvviso della DMO che è arrivato a ciel sereno senza preavviso, poiché si doveva far spazio alle aree rosse di emergenza accoglienza pazienti COVID-19 o con disturbi respiratori importanti per cui fortemente sospetti.
Abbiamo svolto compiti che non ci competevano, ma eravamo coscienti del fine ultimo e non potevamo tirarci indietro. Noi infermieri lì a spostare mobili, trascinare oggetti per portarli altrove, oltre il nostro orario di servizio e nei giorni di riposo. Ma ce l’abbiamo fatta in tempi di record.
Sì, perché la paura di morire ce l’abbiamo, ma possediamo pure gli “attributi” di piombo. Siamo infermieri, sulla carta, nella mente e nel cuore e offriamo tutto quello che possiamo. L'aver permesso di realizzare in poco tempo spazi indispensabili alla cura dei malati infetti ha un'importanza enorme e se qualcuno verrà curato e salvato sarà anche per il contributo di ognuno di noi.
Vorrei che questo mio messaggio arrivasse a tutti i colleghi che offrono quotidianamente del proprio, di lottare con costanza, forti come leoni, per i nostri malati, per la nostra professione, per il bene dei nostri familiari a cui sicuramente teniamo più che a noi stessi.
Buon lavoro. Buona fortuna. Forti come leoni della savana affamati di sconfiggere COVID-19. Questo l’ho imparato in Congo.
Arianna Saugo , Infermiera
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