La vita professionale di un infermiere è complessa e sempre indirizzata al prossimo sotto il profilo assistenziale ed a sé stesso in termini di sicurezza sul posto di lavoro. È innegabile che in questa fase storica gli obblighi imposti dalla pandemia hanno violentemente cancellato decenni di empatia, etica e quant’altro abbia contribuito a migliorare quella relazione di cura costruita con così tanto amore ed intelletto da parte di tutti noi. È giunto però il momento di riconquistare quei minuti, quelle ore nelle quali, ricordiamolo a noi stessi, gli utenti sono rimasti soli nelle loro stanze , con le loro paure, i loro timori, soprattutto con la loro solitudine che potremmo definire “la solitudine dei numeri zero” visto che non li abbiamo neanche più chiamati per numero di letto, anzi abbiamo utilizzato un linguaggio simile ad un vecchio codice informatico binario (1-0): Covid+ o Covid free.
Covid-19: quanto abbiamo perso in termini di relazione con l'assistito
Il tempo di relazione è tempo di cura
Per affrontare questa “necessità infermieristica” abbiamo chiesto aiuto ad Aurelio Filippini , presidente OPI Varese e membro del Comitato Etico dell’ISS , con il quale tenteremo di vedere la luce oltre la pandemia, quantomeno rispetto ad uno dei fondamenti assente nell’ultimo anno: “il tempo di relazione è tempo di cura ”.
La visione che ci accompagnerà durante questo breve momento di confronto sarà rappresentata dalla consapevolezza che tutte le attività che abbiamo svolto erano necessarie; era scientificamente doveroso sacrificare un bene minore per salvaguardare un bene maggiore .
Presidente Filippini, a suo avviso oggi possiamo invertire la rotta e recuperare anche quel bene finora sacrificato?
Grazie per avermi coinvolto in questa riflessione; mi appassiona davvero moltissimo e ritengo sia un argomento obbligatoriamente da affrontare. È assolutamente il momento di cambiare rotta, abbiamo perso fin troppo e forse non solo a causa del Covid nella relazione con le persone che assistiamo e i loro parenti; è sempre stato un punto di forza della professione molto apprezzato dai nostri pazienti e cittadini.
È comprensibile che si sia dovuta fare di necessità virtù e quindi modificare la nostra modalità di relazionarci a causa dell'isolamento e dei mezzi di protezione che hanno comunque impedito una fluida comunicazione, interrompendo quasi completamente di fatto le interazioni con le persone che abbiamo assistito.
Siamo diventati il mezzo di comunicazione privilegiato molto spesso con i parenti e di questo dovremmo fare tesoro e tenerlo presente ancor di più ora con le persone che assistiamo. Dobbiamo recuperare la vicinanza con le persone che assistiamo . L’eccessivo tecnicismo non ci sta aiutando; la relazione, per essere considerata come tempo di cura, ha bisogno del contatto e della vicinanza, sicuramente della prossimità e dell’utilizzo del tempo che abbiamo a disposizione ovviamente.
Come anticipato dal documento del Comitato nazionale per la Bioetica, sarebbe auspicabile segnare nell’agenda di Governo, in particolare del Ministero della Salute, lo studio di modalità organizzative con le quali permettere l’ingresso dei visitatori nelle strutture sanitarie (quantomeno i parenti vaccinati); a suo avviso sono maturi i tempi per un tale approccio?
Nonostante una campagna vaccinale che vede alcuni step un po’ più lenti di quelli che ci si auspicava - un po’ per la mancanza dei vaccini, un po’ per la difficoltà a reclutare personale - direi che comunque il momento è assolutamente favorevole. Una buona parte di popolazione verrà vaccinata comunque entro primavera e in ogni caso i parenti delle persone fragili riceveranno il vaccino quasi contestualmente.
Questo isolamento forzato per le persone, ma in fondo anche per gli operatori, deve trovare il modo di interrompersi per ripristinare quella modalità relazionale che porta beneficio a tutti.
In considerazione della sua esperienza nella duplice veste di “infermiere” e membro del Comitato Etico dell’Istituto Superiore di Sanità ritiene improcrastinabile restituire “familiarità” ai pazienti ricoverati?
Assolutamente sì! Con il senno di poi forse si potevano progettare già percorsi durante la pandemia, ma ovviamente l’eccezionale novità dell’evento pandemico non ha consentito di strutturare anche un percorso che prendesse in considerazione la comunicazione e la relazione ed era sicuramente prioritario ridurre il più possibile i possibili contatti e quindi contagi.
Ma ora che abbiamo sufficienti conoscenze e, come dicevamo prima, la campagna vaccinale sta progredendo, non esiste un motivo valido per cui la familiarità cui fa riferimento non torni ad essere un evento quotidiano anzi ancora meglio di prima della pandemia. Il timore che Covid-19 ha insinuato in ognuno di noi (pazienti o operatori che siano) necessita, per essere superato, proprio della comunicazione e della relazione .
Viviamo un paradosso: meno si comunica, meno ci si relaziona e peggiori sono le condizioni di salute di chi assistiamo e più queste peggiorano meno ci relazioniamo
La comunicazione e la relazione, anche terapeutica, sono un caposaldo della professione infermieristica e negli ultimi studi, come quello della RN4cast , è stato evidenziato come questa mancanza crei un grosso problema per la salute delle persone e peggiora il benessere degli operatori.
Mantenendo la discussione su un livello “alto ed intellettualmente costruttivo”, ritiene doveroso impegnarsi in prima persona al fine di ripristinare quel propedeutico tempo di relazione, piuttosto che rivendicare diritti non pienamente in linea con una professione che ha come mission la responsabilità assistenziale?
Assolutamente sì: il mio impegno e anche le mie energie nell’approfondimento e negli studi hanno preso un risvolto che si avvicina sempre di più all’etica e alla deontologia. Personalmente quindi ritengo che per me sia un dovere morale quello di approfondire sempre di più tali argomenti e farli diventare patrimonio della nostra professione e più in generale per l’essere umano.
Una solida identità professionale non ha bisogno di rivendicare diritti, perché li ha già fatti suoi. La responsabilità assistenziale è innanzitutto:
Deontologica ed etica
Poi ovviamente ha anche una grossa componente legale
E c'è sicuramente una componente organizzativa sindacale che va preservata
Queste caratteristiche della responsabilità, dal mio punto di vista, identificano i doveri del professionista, la relazione come tempo di cura è sicuramente uno di questi doveri in fondo, se ci pensiamo bene, è anche una grande opportunità di crescita umana e professionale quella di poter conoscere le persone con cui lavoriamo che siano essi i nostri pazienti, i loro familiari e in senso più ampio anche l’équipe di cura.
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