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COVID-19

In memoria di Maria Marinangeli, infermiera

di Giordano Cotichelli

Si chiamava Maria Rosario Marinangeli, infermiera. Se n’è andata il 28 luglio scorso a causa, sembrerebbe, di complicazioni dovute al Covid-19. Il trasporto urgente in ambulanza per arrivare in tempo in ospedale, e trattare quella che sembra essere stata una fatale trombo-embolia polmonare, non è servito. Alcuni giorni fa, colleghi e parenti l’hanno ricordata in una cerimonia pubblica con un lancio di palloncini come omaggio alla brava persona, buona amica, e grande infermiera che è stata.

È stato uno Tsunami, qualcosa di più grande di noi

Maria aveva 43 anni. Il marito vuole sapere se è stata dimessa troppo presto dall’ospedale dove era stata ricoverata per tre settimane causa il Covid-19. E vuole, altresì sapere, se l’ospedale stesso dove lavorava avesse osservato tutte le disposizioni in tema di sicurezza sul lavoro ed uso dei DPI. Triste storia quella di Maria, ma uguale a quella di molti altri sanitari che si sono ammalati di Covid-19. Troppi ci hanno rimesso la vita, molti di più sono guariti, risultando però indeboliti, fragili, compromessi. Come è accaduto, e sta accadendo, a milioni di persone nel mondo.

Quella di Maria è storia dell’oggi e spinge alla tristezza, alla rabbia, alla rassegnazione e a provare un po’ di empatia. Qualcuno starà leggendo queste righe anche per spirito di “corpo”, in quanto riguarda un’infermiera. Una vicenda che somiglia alle tante di chi un vissuto settimane in lotta contro la pandemia, cui è rimasto dentro un macigno che pesa e che, al pari del marito di Maria, dei suoi amici e dei suoi colleghi, chiede il perché di tutto questo. Non tanto per capire come funziona la patogenesi della malattia, l’infeziosità del virus, ma per sapere quanto la mano dell’uomo, della cattiva amministrazione, della superficialità di governo e dell’indifferenza di classe, possano o meno aver accelerato il dilagare di contagi e morti.

La seconda ondata sembra sempre più prendere forma ed avanzare nel nostro paese, un passo indietro rispetto al resto del continente, alla pari però con la voglia di giustizia sanitaria e sociale che la pandemia sta trascinando con sé, nella consapevolezza che già molte delle risposte preconfezionate per l’occasione verranno messe in opera. “È stato uno Tsunami, un’esplosione nucleare, qualcosa di più grande di noi”, “Si doveva chiudere prima. Erano loro che dovevano chiudere, colpa loro … merito nostro”. Un brutto spettacolo da parte di chi si è assunto la responsabilità di dirigere, a diversi livelli, questo paese, queste istituzioni, questi territori.

Del resto, c’è poco da stupirsi, dato che una parte di questa classe dirigente non si fa scrupoli a prendere una manciata di soldi così, tanto per prenderli, inventandosi poi le peggio fandonie per coprire malamente la cattiva azione. Alcuni hanno detto che i soldi presi volevano darli in beneficienza, perché è colpa di chi ha fatto la legge non di chi ne ha approfittato. Per coloro che sono stati costretti a chiudere la loro piccola attività, a prosciugarsi i risparmi di una vita, a mangiare pane (poco) e disperazione (tanta) in questi mesi, speriamo che i prossimi mesi siano meno vigliacchi delle menzogne che sono costretti a sentire.

Ed essere un criminale è qualcosa che non può corrispondere ad un adolescente preso per il collo come se fossimo in una gara di wrestling. Per questo considero che Maria, non con la sua malattia, ma con il suo lavoro, ha fatto realmente una beneficienza, nel senso stretto della parola: bene – facere, bene – efficienza.

E la beneficienza si fa con il proprio “denaro” non con quello degli altri. E fare l’infermiere, per quello che si è pagati in Argentina, in Latinoamerica, dappertutto, è un’opera di beneficienza. Tutto qui? No!

Un’ultima cosa. In Argentina la pandemia si sta facendo sentire un po’ di più rispetto alle scorse settimane. I morti sono saliti a 5.088 e i contagi a 260.911. In quel paese però si sta uscendo dall’inverno e presto sarà primavera da loro e, speriamo, anche da noi.

NurseReporter

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