Infermiere Forense
Per la Cassazione scatta il reato di maltrattamenti per la sanitaria brusca e frettolosa che con coscienza e volontà persiste nel tenere una condotta vessatoria verso pazienti anziane. Non occorre che vi sia volontà d'infliggere sofferenza; bastano la consapevolezza della ripetitività e pluralità di gesti idonei a ledere la personalità della vittima.
Maltrattamenti: il rovescio della medaglia di una professione resiliente
La violenza, in qualsiasi forma si manifesti, indipendentemente dal contesto nel quale si mette in pratica, si colloca agli antipodi di qualunque relazione umana, soprattutto di cura.
In particolare, se il protagonista ed attore principale è un operatore sanitario e la vittima una paziente anziana ospite di una struttura ospedaliera, diventa indispensabile fermarsi a riflettere sulle conseguenze che tale condotta assume per la malata da un lato, per la comunità sanitaria dall’altro.
Chiunque maltratti una persona affidata a lui per ragioni di cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
Chi parla è l’articolo 572 del Codice penale, scomodato dalla Corte di appello di Torino e confermato dalla Corte Suprema di Cassazione (Sentenza n. 25116 del 01/07/2021), seconda sezione penale, nei riguardi di una sanitaria ritenuta colpevole di aver adottato gestualità violente e non necessarie nelle fasi dell’assistenza di una paziente in modo sistematico, come dimostrato dall’atteggiamento sempre intimorito della vittima. Atteggiamenti violenti (in particolare verbali e fisici) venivano messi in atto dall’imputata nei confronti di molte pazienti a tal punto che anche la coordinatrice infermieristica l’aveva redarguita.
Il Presidente della Corte di Cassazione, nel confermare la sentenza della Corte d’appello, motiva tale decisione affermando che l’insieme delle condotte, siano esse pure di breve durata, sono idonee nel loro complesso a tradursi in un regime che cagioni profonda sofferenza e prevaricazione nei confronti della vittima
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La collocazione delle suddette forme di violenza all’interno dell’art. 572 C.p. muove dalla ripetitività dei maltrattamenti, pur assimilabili a gesti bruschi e frettolosi; tale conclusione deriva dal fatto che è sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima
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Di fatto, basta che le condotte vessatorie siano tenute nella consapevolezza del loro carattere ripetuto e della loro idoneità a creare una stabile e dolorosa patologia della vita familiare con la conseguenza che l’avere agito con volontà e la natura dei comportamenti emersi valgono da soli ad evidenziare la piena contezza di sottoporre la vittima a mortificazioni e patimenti, morali ma anche fisici, tali da rendere dolorose ed avvilenti le condizioni di vita.
A questo punto, così come anticipato, diventa imprescindibile fermarsi e riflettere su quanto finora commentato: la violenza è sempre da condannare. Chiunque sia la vittima, chiunque sia l’imputato. Ma per riflettere in maniera obiettiva dovremmo considerare come mai un sanitario arrivi ad assumere un atteggiamento del genere.
E se la violenza fosse la risposta di una disorganizzazione aziendale? E se l’instabilità emotiva dell'operatrice fosse il sintomo di uno stress lavoro-correlato?
Visto che l’impalcatura giudiziaria si fa carico di punire chi viola le innumerevoli regole dettate dai vari codici, nonché dai codici deontologici, restituiamo alle aziende la responsabilità di prevenire il decadimento psico-fisico dei propri lavoratori e ai lavoratori consigliamo di chiedere aiuto ad un professionista competente in materia, in grado di fornire strumenti terapeutici di tipo cognitivo-comportamentale, che favoriscano una maggiore coscienza del problema, così da modificare il proprio atteggiamento.
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