Rianimazione
In Europa l’apertura delle TI è in buona misura già realtà e anche in Italia ci si orienta sempre più a realizzare questo nuovo modello culturale ed organizzativo, ma dopo vent’anni siamo sicuri che sia così una novità e non una solida e motivata esperienza da seguire? Se lo chiedono Alessandro Galazzi e Alberto Giannini nel loro editoriale pubblicato su Scenario - Il Nursing nella sopravvivenza - rivista ufficiale Aniarti (Scenario 2018; 35 (2)).
Aprire le terapie intensive, un cambiamento culturale
Nel 2008 Scenario pubblicò un articolo nel quale pionieristicamente si descriveva l’allora decennale esperienza di Terapia Intensiva (TI) “aperta” della TI Pediatrica, della Clinica De Marchi del Policlinico di Milano, come una realtà bella ed intensa, ricca di emozioni per gli operatori, per i pazienti ed i loro familiari e concludeva augurandosi che negli anni a venire si sarebbero aperte altre TI.
Anni fa i colleghi, seppur in un contesto particolarmente dotato di sensibilità come quello pediatrico, avevano già colto l’importanza di una modalità di essere TI che va oltre il fare TI, anche per il paziente adulto.
In Letteratura le policy sugli orari di visita in TI sono discusse dal 1984, ma una loro reale attuazione vede gli albori solamente negli anni successivi. Viene descritto un cambiamento di mentalità radicale: incentrare l’assistenza anche sulla famiglia e fare della comunicazione il fulcro attorno al quale ruoti la buona riuscita del processo di assistenza e cura.
La fatica nel perseguire questi obiettivi è dovuta al fatto che le TI a partire dalla loro creazione sono state reparti chiusi, dove l’accesso ai visitatori era molto limitato, perché considerato inutile e pericoloso.
C’erano molte paure per il rischio di infezioni, di interferenza con le cure, di aumento dello stress per pazienti e familiari, e di violazione della confidenzialità delle informazioni.
Il ricovero del paziente in TI ha obbedito a lungo a quello che è stato definito il “principio della porta girevole”: quando entra il paziente, i familiari vengono fatti uscire.
Oggi però sappiamo non solo che questi timori sono del tutto infondati, ma anche che la separazione dai propri cari è un importante motivo di sofferenza per il malato e che uno dei bisogni più importanti dei familiari è stare accanto alla persona amata.
Molte ricerche hanno provato che avere una persona cara ricoverata in TI causa grande sofferenza: tra i familiari dei pazienti vi è un’altissima incidenza di ansia, depressione e stress post-traumatico, che spesso dura per mesi anche dopo le dimissioni del parente.
Numerosi studi suggeriscono che la liberalizzazione dell’accesso alla TI per familiari e visitatori non è in alcun modo pericolosa. In particolare non causa un aumento delle infezioni nei pazienti, mentre si riducono in modo significativo le complicanze cardiovascolari e i livelli di ansia, perché si abbassano gli indici ormonali di stress e si dimezza l’incidenza di delirium.
Un ulteriore importante effetto positivo è rappresentato dalla netta riduzione dell’ansia nei familiari. Per tutti questi motivi la lettera F di family è entrata a pieno titolo nell’ABCDE bundle.
Terapia intensiva e implicazioni etiche
Anche il Comitato Nazionale Italiano per la Bioetica ha rimarcato le motivazioni etiche oltre che cliniche dell’apertura delle TI, sottolineando che la presenza dei familiari accanto al malato non è una concessione ma il rispetto di un ben preciso diritto del paziente.
Condividono questo messaggio anche ANIARTI (Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica), SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) ed ESICM (European Society of Intensive Care Medicine) il cui presidente nel 2002 scrisse quello che può essere considerato il manifesto della TI aperta dove mise nero su bianco che era giunta l’ora di aprire le porte e che l’umanità nella cura dei nostri pazienti dovesse avere alta priorità.
Tuttavia sarebbe sbagliato minimizzare le difficoltà o gli inconvenienti relativi alla scelta di aprire la TI che sono prevalentemente legati alle abitudini e al carattere tanto dell’équipe medico-infermieristica quanto dei familiari dei pazienti.
Gli operatori sanitari non sono abituati ad essere osservati durante lo svolgimento delle loro attività e spesso considerano la comunicazione con i familiari come un’ulteriore aumento del carico di lavoro.
Dovremmo anche considerare che invadenza, aggressività o diffidenza tendono ad essere quasi sempre esasperate da situazioni nuove e stressanti. Tutto questo viene spesso affrontato in modo rigido, facendo più riferimento ai regolamenti (veri totem della vita ospedaliera) che non al senso degli eventi e alla ricerca di soluzioni equilibrate e razionali.
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