Sapersi adattare, essere pronti a tutto. Anche a vivere con la morte nel cuore. Non perché siamo eroi, ma perché restituire il sorriso a qualcuno è uno dei gesti più belli che una persona normale, un comune mortale, possa fare. È questo lo spirito con cui Salvatore Errico, infermiere strumentista di Napoli, gira il mondo con una Ong e si prende cura di bambini che crescono in condizioni molto più vicine alla morte che alla vita.
Storia di un volontariato che fa sorridere
“Non sapremo mai quanto bene può fare un semplice sorriso” affermava Madre Teresa di Calcutta, ma sappiamo quanto possa fare bene a noi regalarne qualcuno. Ce lo insegna la vita. E ce lo insegna un infermiere napoletano, Salvatore Errico, che oltre a dispensare i suoi di sorrisi, fa in modo che tutti quelli che gli stanno intorno possano averne uno stampato sul volto.
Parliamo di bambini affetti da palatoschisi, labbro leporino, esiti di ustioni, traumi da guerra, malformazioni del volto. Parliamo di bambini a cui non solo è stato negato di poter sorridere, ma che non riescono ad articolare correttamente il linguaggio e che non riescono ad alimentarsi in maniera opportuna.
Bambini, spesso, ghettizzati e derisi, considerati “diversi” e quasi mostruosi, soprattutto in realtà come quelle esistenti nei paesi in via di sviluppo, in cui le patologie sono anche malattie sociali.
Salvatore Errico è membro dell’Ong “Emergenza Sorrisi”, che si occupa di realizzare vere e proprie “missioni chirurgiche” con lo scopo di operare questi bambini e di restituire loro il sorriso… e, probabilmente, la vita.
Salvatore è infermiere strumentista di sala operatoria e fa parte di una équipe, o per meglio dire, di una famiglia, composta da circa 370 volontari. Durante l’intervista al collega che lavora in uno dei più importanti ospedali campani, il Monaldi, mi ha coinvolta nei racconti delle sue esperienze di volontariato, parlandomi di quali siano i valori in cui crede, dei motivi che lo spingono a partire e della bellezza dei sorrisi dei bambini.
Ha sottolineato il concetto di “familiarità”, affermando che durante le missioni è inevitabile si crei un rapporto intimo e saldo tra i volontari, basato sul rispetto, sulla fiducia, sull’amore per la propria professione e sulla loro volontà comune di partire per aiutare. Volontà che affonda le radici, afferma Errico, in quell’aforisma che ha preso in prestito da Madre Teresa: “Non importa quanto si dà, ma quanto amore si mette nel dare”.
Forse è una domanda banale, ma quali credi siano i requisiti necessari per poter affrontare un’esperienza come questa?
(Con Salvatore è consentito parlare solo dandogli del “tu”, così un po’ l’ho fatto per assecondare la sua volontà… E un po’ perché lo considero un mentore, un insegnante, un dispensatore di consigli ed un amico).
Bisogna avere capacità di problem solving, questo è certo. Bisogna sapersi adattare, essere pronti a tutto. Anche a vivere con la morte nel cuore. E soprattutto bisogna essere mossi dall’amore non solo per la professione, ma per l’essere umano… in particolare per i bambini, che mi piace chiamare “angioletti”
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Raccontami delle tue esperienze di infermiere volontario
Siamo stati in Indonesia, dove abbiamo lavorato presso strutture sanitarie precarie. Siamo andati nello Yemen, salvando bambini che vivevano in uno stato di denutrizione che era molto più vicino alla morte che alla definizione di “vita”. Poi Afghanistan, Iraq, Pakistan.
Eravamo accolti dall’équipe di medici ed infermieri del posto che ci accompagnavano nei nosocomi in cui operavano. C’era da mettersi le mani tra i capelli: camere operatorie sporche, fatiscenti, in cui circolavano liberamente formiche e scarafaggi.
E poi l’assenza di un contatto diretto con le colleghe del posto. Loro portavano il burqa, un velo che non lasciava trasparire sorrisi, sebbene noi fossimo lì proprio per quelli. Ma, forse, il viaggio che credo più di tutti abbia mosso qualcosa in me, è stato quello ad Haiti, un posto in cui vivere è più difficile che morire.
Ricordo che la vita scorreva a rallentatore, le persone si muovevano lentamente, cercando di farsi spazio tra le macerie. In alcuni istanti ho avuto la morte nel cuore, ma poi si è trasformata in forza, perché dovevamo aiutare i bimbi rimasti feriti durante il terremoto che pochi mesi prima aveva devastato una città già distrutta, in cui regnavano morte e caos. Eppure ci tornerei anche adesso… non perché siamo eroi, ma perché restituire il sorriso a qualcuno è uno dei gesti più belli che una persona normale, un comune mortale, possa fare
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