Mettere tra parentesi il proprio essere pedina sostituibile
in Italia per essere un ago della bilancia in Madagascar. È quello che ha fatto Tiziano Garbin, Infermiere specialista in emergenza/urgenza e management infermieristico, che è partito “per lavarsi la coscienza”, ma che poi ha scoperto che in Africa l’ego e l’auto-soddisfazione centrano sempre meno, diventa un obiettivo irrinunciabile il fatto di impegnarsi al 200% per poter attenuare le conseguenze delle malattie che tolgono il sorriso a quella gente sincera
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Tiziano, infermiere in Madagascar: Partito per egoismo, torno più ricco
Qualche tempo fa ho avuto la grande opportunità di partire alla volta dell’Ospedale Vezo in Madagascar come infermiere esperto. La scelta dell’associazione a cui affidarmi non è stata difficile: il mio desiderio era quello di lavorare come infermiere nelle organizzazioni umanitarie in un piccolo ospedale, modesto ma funzionale e decisamente non simile alle realtà europee a cui sono abituato.
Amici di Ampasilava-Madagascar era l’associazione che faceva al caso mio: più che una Ong, una grande famiglia.
A differenza delle grosse organizzazioni umanitarie, che possono permettersi di creare più ospedali nei paesi più poveri pari ai nostri standard con tecnologie e strumenti all’avanguardia, questa associazione ha creato e gestisce un solo piccolo ospedaletto affacciato sull’oceano indiano nella costa sud ovest del Madagascar gestito interamente da volontari che non vengono retribuiti e che si autoalimenta, anche grazie alle raccolte fondi in Italia.
Ogni turno è organizzato in modo che ci sia almeno un medico e un infermiere esperto a cui in aggiunta possono avere l’opportunità di partecipare anche professionisti neo abilitati oppure anche studenti.
Il sistema funziona perché ognuno può (e a volte deve) mettere a disposizione ciò che realmente sa fare per il bene del paziente, superando ogni barriera professionale se la necessità lo impone.
Nel periodo in cui ero presente all’ospedale l’apparecchio per i raggi X era fuori uso, ma fortunatamente c’era un ecografo, il famoso fonendoscopio del 2000 ha permesso di fare la differenza in moltissime patologie dal punto di vista diagnostico e terapeutico.
Perché ho scelto di partire per il Madagascar
Le motivazioni che mi hanno spinto a partire sono molteplici: la voglia di evadere e di dare una scossa alla routine, il poter contribuire concretamente nell’aiutare delle persone vulnerabili a stare meglio, rafforzare un legame, crescere professionalmente, conoscere persone che come me volessero lasciare un’impronta in Madagascar, vedere posti meravigliosi.
Alla fine si può dire che la mia partenza da volontario sia stata un moto in un certo senso egoista, un modo per lavarsi la coscienza e poter dire al proprio ego che “io sono importante perché aiuto le persone”
Ebbene questa visione libera da ipocrisie mi ha accompagnato fino al momento di salire sulla jeep che mi avrebbe portato da Tulear (sede dell’aeroporto più vicino) ad Andavadoaka, il villaggio di pescatori in cui si trova il piccolo ospedale.
L’impatto con il Madagascar è stato come un pungo nello stomaco, forte, violento e ha sgretolato tutte le mie aspettative. Ho subito capito come l’Africa sia un mondo a sé, con le sue regole, che ti fagocita e ti fa dimenticare la tua vita routinaria. In Africa si sta bene con poco, quasi niente, ma è il necessario per vivere ed essere felici.
Da noi invece esiste una quantità enorme di superfluo che genera infelicità. Il luogo comune che "più si ha e meno si è felici" ha trovato realmente riscontro. Le sensazioni forti date dagli odori, dai colori, dal sorriso delle persone, dalla pazienza dei sofferenti, dalla generosità dei pescatori mi hanno fatto capire che forse non è poi tanto una fortuna essere nati nel lato del mondo che viene definito perfetto.
Il poter aiutare della gente con le cose che sai e che sai fare è una sensazione che genera benessere, ma ti rattrista allo stesso tempo, perché non puoi restare lì per sempre. In Italia tu sei un numero facilmente sostituibile e non indispensabile, ma per loro lì fai la differenza fra vivere e morire. Fin dai primi giorni in ospedale ti accorgi che l’ego e la auto-soddisfazione centrano sempre meno, diventa un obiettivo irrinunciabile il fatto di impegnarsi al 200% per poter attenuare le conseguenze delle malattie che tolgono il sorriso a quella gente sincera.
Il bagaglio che ci si porta a casa è enorme, indimenticabile e ti cambia il modo di pensare. Il ritorno è duro.
Come si fa a riabituarsi a tutto questo spreco? Come si fa a ritornare al proprio posto di pedina sostituibile?
È dura, ma ormai qualcosa dentro è scattato e non si torna indietro. Il cuore e la mente restano in Madagascar dal guardiano di zebù a cui hanno sparato e per il quale ti sei dovuto svegliare quasi tutte le notti a bloccare un'emorragia, per la ragazza ustionata a cui hai salvato la vita con il primo intervento e le cure successive che l’hanno portata di nuovo a sorridere, al ragazzo colpito da un’accetta in testa per cui non potevi fare nulla se non accompagnarlo a morire in modo sereno.
Poi c’è il bambino ferito gravemente da un grosso pesce, che piano piano ha ripreso l’uso della gamba, la ragazza della tua età per cui hai dato il sangue (letteralmente) per non farla morire…
Grazie ad Amici di Ampasilava queste persone e mille altre sono state e saranno al centro delle attenzioni di persone così dette più fortunate, creando una sinergia e una unione fra culture alla fine poi non così tanto diverse e migliorando la vita di entrambi.
L’Ospedale Vezo è un diamante creato e custodito da persone meravigliose a cui va tutta la mia stima.
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