La mia giornata con Maria e quel diavolo di demenza
Flavia insieme a Maria nella Nursing Home in Inghilterra
”Buongiorno Marì, come stai?” “Io sto benissimo, grazie”, risponde lei con un sorriso radioso, e poi aggiunge: “quanto sei bella stamattina”.
Come fai a non iniziare bene una giornata con una persona che ti vede bella, quanto tu pensi che anche lo specchio rifiuti la tua immagine alle 6 di mattina?
Maria è italiana, emigrata negli anni 50 da un paesino vicino Avellino, qui in Inghilterra. Nei suoi momenti di lucidità - perché Maria è affetta da demenza vascolare - mi racconta della povertà dell’Italia del sud, dell’esigenza di andarsene per trovare fortuna altrove.
I suoi racconti mi fanno pensare che molto poco in realtà sia cambiato da allora ad oggi, la sua storia potrebbe essere tranquillamente la mia storia e quella di tutti noi emigrati .
Il mio primo giorno di lavoro alla Home è stato contrassegnato dalla sua conoscenza . Mi avevano detto prima di iniziare che avrei trovato una signora col quale parlare italiano. Appena conosciuta le dissi un “Ciao Maria!”, che procurò il suo più grande stupore. “Ma tu parli italiano come a me”. “Certo, perché sono italiana, come a te”. “Vieni qua, che te bacio!” Ecco la mia conoscenza con Maria. Da allora è passato il tempo, ma non la sua dolcezza e il suo onnipresente sorriso.
Maria ha dei lunghi momenti di confusione , di alterazione del tempo e dei luoghi. Non ricorda né dove si trovi attualmente, né molte cose della sua vita passata, ma non ha mai smesso di riconoscere la sua famiglia, il figlio, la nipote.
Ha necessità di essere incoraggiata per mangiare. Anche qui alterna periodi di totale inappetenza con periodi dove spazzola letteralmente il piatto e tu non fai in tempo neanche a realizzare che ha finito.
Ma se non mangia ed io la incoraggio in italiano, allora il discorso cambia . Qualche giorno fa aveva davanti il piatto pieno, ma sonnecchiava davanti al tavolino. Helen, una delle career, aveva provato inutilmente a svegliarla in tutti i modi. Niente. Allora mi ha chiesto di spiegarle in italiano che doveva mangiare.
Detto, fatto. Miracolo. Letargia scomparsa, parla a raffica in italiano e mi dice che non le piace il cibo. Ok, posso aiutarti? Sì, mi dice. Un giro dando le compresse del pomeriggio, ed un giro imboccando lei.
”Mi piace così tanto quando mi parli in italiano ”, mi dice, lei che parla inglese esattamente come un’autoctona, essendo qui da quasi sessant’anni. I ricordi, stimolati dalla lingua di origine, emergono più facilmente. È sorprendente come in tutti questi anni in Inghilterra, non abbia mai dimenticato l’italiano.
La vita prima del demone della demenza
La demenza ha cancellato gran parte del suo passato , la memoria a breve termine poi non esiste affatto, ma la lingua natia, mai parlata in tutti questi anni, peraltro, perché non l’ha insegnata neanche ai suoi figli, Maria certo non l’ha scordata.
Recenti studi italiani, precisamente del S. Raffaele di Milano, affermano che chi ha la fortuna del bilinguismo sviluppa più tardi la demenza. Non solo. Come osserva Daniela Perani, coordinatrice della ricerca, “più le due lingue sono utilizzate, maggiori sono gli effetti a livello cerebrale e migliore è la performance. Il punto non è quindi conoscere due lingue, ma usarle costantemente in maniera attiva e durante tutto l’arco della vita”.
Questo sicuramente non è accaduto con Maria, che di sicuro erano tantissimi anni che non parlava italiano, quindi sembra avvalorare la tesi della ricercatrice. Da notare che Maria quando io sono in turno, parla prevalentemente in italiano, anche con lo staff che naturalmente è inglese.
Le situazioni più buffe si realizzano proprio quando parliamo in italiano entrambe e poi dobbiamo tradurre per gli altri; talvolta Maria, con occhio malizioso farfuglia: “non te lo dico quello che ho detto, è un segreto!”.
È evidente che il mancato uso quotidiano della lingua italiana per Maria ha influito anche sull’avanzare della demenza ed ora che ha l’opportunità di parlare ancora nella lingua nativa, questo non fa altro che influenzare in modo positivo la sua vita di partecipazione alla piccola comunità della Nursing Home .
Una camera da letto con specchio
I suoi ricordi si focalizzano specialmente quando guarda il grande quadro appeso alla parete della sua camera, con le foto del suo matrimonio, dei figli piccoli, dei nipoti, di quella che è stata la sua vita prima che il demone della demenza prevalesse sulla sua mente.
Si ricorda, ad esempio, quanti anni aveva quando si è sposata, o che il 21 luglio scorso è stato il compleanno di Sarah, la figlia, pur non ricordandone gli anni.
La partecipazione in questi casi dell’infermiere allo stato psichico del residente è di primaria importanza. Io uso coinvolgere la famiglia di Maria con la sua vita quotidiana con l’ausilio dei social, ad esempio. Mando una foto della mamma a Sarah che vive lontano e non può vederla ogni giorno, o un suo messaggio vocale. Parlo spesso con Mark, il figlio, riguardo la situazione attuale di Maria e mi confronto con lui su ogni suo minimo cambiamento. La famiglia spesso viene lasciata sola quando uno dei loro componenti si ammala di demenza, che in ogni caso non è una malattia, ma una sindrome, essendo multifattoriale.
Una demenza atipica
Quella di Maria è una demenza particolare . Lei riesce ancora a riconoscere i propri cari, a parlare con loro seppure con qualche difficoltà, sebbene le sfuggano molti particolari o non ricordi assolutamente neanche ciò che ha mangiato due ore prima.
La chiamo “demenza atipica”, perché al contrario di molti altri casi che abbiamo nella nostra Home, Maria è rimasta una persona dolcissima, affettuosa, affabile, sempre pronta ad acconsentire piuttosto che discutere, non ha subito quello che è tipico della sindrome, ovvero quello che noi chiamiamo “challenging behaviour”, cambi comportamentali.
Neppure quando si è trattato di andare in ospedale per motivi seri di salute e di rimanerci anche per più di qualche giorno.
La demenza la porta anche ad essere sonnolente, spesso poco reattiva, questo talvolta con grave compromissione dell’appetito. La dobbiamo stimolare chiamandola, invitandola a prendere in considerazione il piatto. Talvolta quando la situazione si presenta troppo compromessa, siamo costretti ad imboccarla, ma sempre senza sue particolari reazioni, anzi il “grazie” è sempre presente con il suo affabile sorriso.
Maria non presenta inoltre il wandering , il tipico fenomeno che porta il malato di demenza a vagabondare senza meta precisa, sentendosi spesso perso, cercando costantemente di tornare a casa. Non è ripetitiva, ossessionante; tutt’altro. Accetta ben volentieri spiegazioni, inviti, suggerimenti. Questo porta a fare un’altra constatazione di base e cioè quanto conti il carattere insito della persona prima che insorga la demenza.
È evidente che sia quest’ultima ad acutizzare gli aspetti meno eclatanti caratteriali, come la logorrea, la misoginia, la riservatezza, la pigrizia o la testardaggine. Molte spigolosità infatti in fase di demenza vengono evidenziate fino al punto da far sparire completamente i “lati buoni” della persona.
Ci accorgiamo assistendoli come sia difficile talvolta comunicare, tentare di avere una spiegazione, un dialogo, senza che molti di loro perdano la pazienza o, nei casi più gravi, diventino aggressivi dapprima verbalmente e poi fisicamente.
Vivere ogni giorno con persone come Maria porta a comprendere molto di più sulla demenza che studiarla su un libro ogni giorno. Per noi nurses e carers di Nursing Home i residents non sono pazienti, ma molto più; diventano quasi membri di famiglia. Ne parliamo esattamente come parleresti di tuo cugino, di tuo nonno o di tua sorella
Nel protocollo inglese tutto questo viene classificato come challenging behaviour e ogni volta che un fatto di questi accade, la compilazione da parte di nurses e staff di un particolare form - in cui viene richiesto di elencare cosa sia accaduto prima, durante e dopo l’aggressione - aiuta il medico e l’eventuale psichiatra a comprendere a quale stato dell’evoluzione della malattia sia arrivato il residente.
Come nurses ci troviamo ogni giorno a prendere anche decisioni non sempre simpatiche, anzi, spesso forzose, come per esempio riuscire a far fare una doccia anche ai più ritrosi. La maggior parte delle persone con demenza infatti, non gradisce assolutamente fare bagno o doccia, specialmente se qualcuno tenta di forzarli.
Il protocollo inglese cita il “the best interest ”, letteralmente: qual è la decisione migliore da prendere quando la persona interessata è stata dichiarata “no capacity”, ovvero incapace di intendere e di volere.
In caso dell’igiene, appare chiaro che ovviamente non abbiamo scelta, è d’obbligo intervenire, includendo in questo spesso anche la cura dei capelli e delle mani. Recentemente abbiamo introdotto per le signore del tempo espressamente dedicato alla manicure e al make-up, perché curare la propria immagine, specchiarsi e vedersi pulite, magari leggermente truccate con un filo di rossetto e un po’ di cipria porta la donna ad una autovalorizzazione della propria persona.
Altro pesante problema che come nurses dobbiamo affrontare quotidianamente è che le persone ospitate, specialmente coloro che vivono sul nursing floor come Maria, non hanno la libertà di movimento, questo perché, appunto, incapaci di intendere e di volere.
Demenze e la privazione delle libertà in UK
La procedura inglese per poter attuare ciò si chiama D.O.L.s , ovvero Deprivation Of Liberties (privazione delle libertà) e viene effettuata presso la City Council (il Comune, per intenderci) da un legale di fiducia della famiglia, dopo che un’apposita commissione ha giudicato che la persona in questione, proprio per il proprio avanzato stato di demenza, è assolutamente incapace di poter continuare a vivere da sola, usufruendo dei diritti propri di qualsiasi normale cittadino.
Spesso è penoso dover rispondere in maniera evasiva ad alcuni residents che soffrono di wandering che non si può andare a casa e che comunque non possono farlo da soli. A volte ci troviamo a dire piccole bugie, del tipo: “ci puoi andare più tardi, ora non c’è nessuno a casa che possa aiutarti”, rimedio assolutamente insufficiente, perché queste persone come già detto hanno una memoria a breve termine paragonabile a zero e quindi nel giro di dieci minuti torneranno a fare la stessa domanda.
Questa per me è una situazione particolarmente frustrante , talvolta demolitiva, perché se da una parte devi rispondere sempre la stessa cosa, in quanto il malato di demenza è notoriamente ripetitivo, dall’altra - specialmente quando avviene mentre stai scrivendo consegne, rapporti, richieste di consulenze da mandare ai vari professionisti - ti distrae irrimediabilmente, magari non contenta ti si piazza sulla porta dell’office, ti guarda e ti dice: “non me ne vado di qui finché non mi dici che posso andare a casa”. Tu guardi l’orologio, sono le 19:30 e dopo dodici ore di lavoro magari sei stanco morto e l’unica cosa che vuoi veramente è dare le consegne ed andartene .
Allora, per fortuna, ci sono i carers, persone gentili, che vedono cosa sta accadendo, capiscono al volo la situazione ed intervengono, quasi sempre fornendo una distrazione, del tipo: “andiamo a prendere una tazza di tè”, oppure “andiamo a vedere cosa danno in tv”. In Inglese lo chiamiamo “disingage ”, letteralmente “disimpiegno”; in realtà in questi casi bisogna fornire sempre qualcosa che possa distogliere l’attenzione sul pensiero fisso di andare a casa, di trovare una possibile via di fuga aprendo tutte le porte sul piano, rischiare di essere invadenti ed essere allontanati di forza, nel senso che due membri dello staff devono, volente o nolente, allontanare la persona da una possibile via di fuga o dalla camera di un altro residente, per non mettere a rischio la giusta privacy.
Vivere ogni giorno con persone come Maria porta a comprendere molto di più sulla demenza che studiarla su un libro ogni giorno. Per noi nurses e carers di Nursing Home i residents non sono pazienti, ma molto più; diventano quasi membri di famiglia. Ne parliamo esattamente come parleresti di tuo cugino, di tuo nonno o di tua sorella.
In questo quadro rientra per me Maria. Il suo buongiorno, il suo sorriso, il nostro scambiarci battute, diventa il miglior farmaco possibile per combattere il diavolo dentro, come chiamo io la demenza.
Un diavolo che ogni giorno ti porta via un po’ di te stesso, un po’ della tua anima, senza che tu possa farci nulla. I tuoi ricordi a poco a poco svaniscono, i volti familiari, le vecchie consuetudini se ne vanno per far posto a buchi neri sempre più larghi e fagocitanti.
Le carezze, gli abbracci, i sorrisi, sono i migliori farmaci esistenti per loro. Alla fine, quando il passato sarà diventato un fantasma evanescente e il presente un nulla quotidiano, con noi saranno sempre a casa.
Flavia Burroni - Infermiera
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