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Infermieri alla ricerca dell'identità professionale perduta

di Giordano Cotichelli

Uno dei maggiori problemi della professione infermieristica è l’essere la risultante di una proiezione e sistematizzazione sociale che non le fa apparire chiara l’essenza stessa del suo portato identitario. In una parola: come possiamo risolvere i problemi dell’infermieristica se non abbiamo idea di chi siamo? O meglio, se questa idea è ipertrofica, autodistruttiva, celebrante o contraddittoria? Quasi in uno stato di depressione continua, una sindrome bipolare che un giorno ci fa sentire i padroni dell’assistenza umana ed il giorno dopo gli ultimi della terra, in un quadro aggravato da una schizofrenia paranoide in cui consideriamo tutti nostri nemici e conviviamo con più personalità professionali contemporaneamente in perenne contrasto fra loro.

Identità professionale perduta, negata o segmentata?

Più volte è stato affermato che l’attuale sistema sanitario italiano sta attraversando una profonda fase di cambiamento. Radicale per alcuni, destrutturante per altri, degenerativa per chi rimpiange la dimensione localista dell’USL di cui il confronto, la partecipazione ed il dialogo rappresentano i miti di un’età dell’oro perduta. Da qualsiasi angolazione la si voglia declinare, l’organizzazione delle cure e dell’assistenza è in una fase di transizione infinita coinvolgente anche le stesse professioni di aiuto e cura.

In questo speranze e frustrazioni marciano di pari passo aumentando un senso di smarrimento e di rivalsa destinate a rimanere insoddisfatte e, come per la politica, chi riesce a cavalcare il malcontento, a dare voce alla “pancia”, a fare promesse con parole d’ordine facili e nemici da combattere, trova ascolto e consensi sul piano editoriale, sindacale, corporativo, ma non apportando alcun valore aggiunto alla professione, non aprendo scenari di sviluppo, prospettando tutt’al più l’occupazione di spazi di competenze e la difesa dei territori di intervento in una guerra “civile sanitaria” senza fine, in cui si ambisce ad avere maggiori responsabilità guardando verso l’alto, “rubando” saperi e pratiche ai medici, ma se per ipotesi l’Oss si azzarda ad avere più competenze (terza “esse”), viene avvertito un attacco diretto alla professione da contrastare come e comunque.

Si sviluppa insomma quello che, in termini di sociologia delle professioni, Anne Witz, all’inizio degli anni ’90 definì come dual closure, quel comportamento caratterizzato da strategie verso altre professioni che oscillano fra l’usurpazione (verso l’alto) e la resistenza (verso il basso).

Quello descritto insomma è un quadro molto presente nella nostra storia professionale dove, mano a mano che una pratica o un sapere diventava di maggior dominio, come professionisti vi accedevamo più facilmente: dall’esecuzione di una emotrasfusione ad un prelievo, ad un’emogasanalisi, alla presa in carico e così via.

Un altro sociologo, Amitai Etzioni, parla invece di una condizione continua di passaggio, di incertezza; un essere in mezzo al guado in maniera infinita, fatto che caratterizza alcune situazioni professionali che, per tale motivo, possono definirsi più delle semi-professioni che non delle professioni vere e proprie dotate di autonomia.

Si pensi, proprio in relazione all’autonomia professionale, alle polemiche in merito al famigerato comma 566, o al see and treat, utili ad evidenziare un fenomeno che, un altro sociologo della Medicina, Eliot Freidson, definisce con il concetto di dominanza medica, un comportamento professionale di una categoria specifica che occupa tutti i posti decisionali, sul piano politico ed economico, senza lasciare spazio ad alcuno.

In tutto ciò il primo obiettivo è ricostruire una identità perduta, forse negata, sicuramente frammentaria. Anzi, segmentata

Allora il problema sono i medici? O al contrario siamo noi stessi il problema? Oppure è colpa del sistema? Domande complesse che meritano risposte articolate e analisi ancor più profonde di queste poche righe declaratorie.

Di certo uno dei maggiori problemi della professione è l’essere la risultante di una proiezione e sistematizzazione sociale che non le fa apparire chiara l’essenza stessa del suo portato identitario. In una parola: come possiamo risolvere i problemi dell’infermieristica se non abbiamo idea di chi siamo? O meglio se questa idea è ipertrofica, autodistruttiva, celebrante o contraria, quasi uno stato di depressione continua, una sindrome bipolare che un giorno ci fa sentire i padroni dell’assistenza umana ed il giorno dopo gli ultimi della terra, in un quadro aggravato però da una schizofrenia paranoide in cui consideriamo tutti nostri nemici e conviviamo con più personalità professionali contemporaneamente in perenne contrasto fra loro.

Come già detto, la questione non può essere risolta in queste poche righe, ma le criticità e le caratteristiche professionali evidenziate hanno l’ambizione di voler essere un punto di partenza, di riflessione, di ricerca per capire realmente il portato identitario della professione infermieristica.

Ed in questo non si può che ulteriormente tornare ai suggerimenti della sociologia delle professioni, delineando un’altra chiave di lettura identitaria: la segmentazione professionale. Se ne può trarre spunto a partire dagli scritti di Giarelli – sociologo italiano - in relazione alla stessa professione medica, non meno sofferente di quella infermieristica al giorno d’oggi.

Le fonti di segmentazione professionale riferite in relazione ai medici sono rappresentate da una diversità delle forme di attività professionale, dalla stessa natura del lavoro prestato, dai processi di specializzazione e dalle scuole scientifiche differenti di riferimento, cui si sono aggiunti anche i ruoli propri del management sanitario.

Un quadro che potrebbe facilmente essere applicato alla nostra professione. O meglio, all’assistenza infermieristica che, posta lungo una linea, si viene a trovare divisa in tre distinti segmenti: il primo, posto ad un’estremità, costituito dalle figure del personale di supporto, gli OSS che in passato erano però definiti infermieri generici. Segue poi al centro la figura del nucleo operativo, l’infermiere nelle sue varie declinazioni di intervento, cui succede il terzo segmento costituito dalla dirigenza.

Tre mondi che comunicano con difficoltà fra loro, rigidamente gerarchizzati, appartenenti ad uno stesso ambito di intervento - l’assistenza - e figli di un’unica dottrina scientifica, l’infermieristica, ma con meccanismi relazionali e conflittuali che oscillano dalla frustrazione al burnout alla fidelizzazione aziendale.

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