Il 12 maggio è il giorno internazionale degli infermieri ed è giusto che assuma valenza globale in omaggio ai tanti paesi poveri di cui non sapremo mai con precisione i grandi numeri della tragedia in atto. Se ha un senso parlare nella giornata del 12 maggio, questo non può che legarsi al bisogno di parlare dei paesi che hanno maggiori problemi, come specchio delle difficoltà di questo paese. Lungo questa prospettiva la giornata internazionale dell’infermiere assume peso, si libera di qualsiasi retorica autorefenziale e si dà un respiro che va oltre le tragedie quotidiane in cui il senso di soffocamento, devastante, non riguarda solo i malati e non è dato solo dal SARS-Cov-2. Il 12 maggio del 2020 deve rendere merito a chi lotta oggi e a chi non può più lottare, nella consapevolezza che niente sarà più come prima.
La parola eroi non basta, non può bastare
Dal 1953, in Argentina, il 21 novembre si festeggia il giorno nazionale dell’infermiera, dedicato a Nuestra Señora de los Remedios. In Perù la festa corrisponde al 30 di agosto, dedicato a Santa Rosa di Lima, mentre in Messico il giorno è lo stesso dell’Epifania, per affermare che le infermiere sono un dono portato dai Re Magi. El Salvador e Stati Uniti festeggiano in prossimità del 12 maggio: il 15 nel primo caso e una settimana intera, dal 9 al 15, negli States.
Questi sono alcuni dei tanti paesi in cui, come comunità nazionale, si onorano ulteriormente i professionisti dell’assistenza sanitaria. Quelli citati sono tutti nel continente americano, scelti per sottolineare la dimensione internazionale della giornata, ancor più durante la pandemia in atto, in special modo per gli Stati Uniti d’America, che hanno conquistato tutti i primati negativi del momento nonostante siano uno dei paesi più ricchi al mondo.
New York, la Grande Mela, il cuore economico ed artistico pulsante del paese, è scosso dai bollettini di guerra che ogni giorno aumentano il peso delle vittime sacrificali colpite dal Covid-19. E questo lo scrive pur sempre chi vive in uno dei paesi – il nostro – fra i più martoriati dell’Occidente. Il 12 maggio è il giorno internazionale degli infermieri ed è giusto che assuma valenza globale in omaggio ai tanti paesi poveri di cui non sapremo mai con precisione i grandi numeri della tragedia in atto. Un po’ come da noi. Forse di più. I morti in strada in Equador, o l’inadeguatezza del presidente del Brasile, o i tanti drammi sottesi dai pochi reportage relativi alle bidonville africane, asiatiche ed anche europee, senza dubbio.
In Russia, nelle scorse settimane, tre medici sono “volati” misteriosamente dalla finestre di alcuni ospedali. Due sono morti. Tutti erano legati all’impegno mostrato nel combattere la pandemia e nel denunciare le inedempienze delle istituzioni e delle dirigenze locali, incapaci di garantire la sicurezza della collettività, le protezioni indispensabili per i lavoratori; prospettive per il futuro.
Il senso del 12 maggio degli infermieri
Ecco, se ha un senso parlare nella giornata del 12 maggio, questo non può che legarsi al bisogno di parlare dei paesi che hanno maggiori problemi, come specchio delle difficoltà di questo paese. Ha senso parlare della giornata degli infermieri ricordando il sacrificio di tre medici, perché questo significa essere infermieri, essere operatori sanitari in questa epoca, fuori da qualsiasi steccato e categoria corporativa.
È l’insegnamento che può derivare direttamente dalla quotidianità di duro lavoro vissuta dalle colleghe e dai colleghi a Bergamo, Brescia, Piacenza e Cremona. Oppure a Torino, dove hanno protestato, rivendicando maggiore sicurezza sul lavoro. A Pesaro, Lodi, Parma e in tutti i posti in cui è stata dura. In cui continua ad essere dura.
Se addirittura un ribelle iconoclasta come Banksy ha dedicato, in maniera irriverente, come è giusto che sia, un suo omaggio all’eroismo delle infermiere significa che quello che si è fatto e si è visto oggi è talmente eccezionale che la parola eroi non basta. Non può bastare.
Non so quali giornali parleranno dell’angoscia di sconosciute badanti, chiuse in casa, senza sapere una parola di italiano e terrorizzate di ammalarsi e di fare ammalare il loro assistito; di perdere tutto. Molti hanno perso il lavoro, gli affetti, il futuro. Ricordate? Prima c’era la movida, il turismo, l’happy hour che sembrava potessero sostituire l’industria delocalizzata. Poche le differenze: stessi salari bassi, lavoro nero e sicurezze quasi assenti.
Poi è arrivata la pandemia scatenata dal SARS-CoV-2, che ha aperto un buco nero, il quale ha inghiottito tutto e tutti, specie i più deboli. Chi aveva fatto sacrifici per aprire un’attività ha scoperto che c’è poco posto in questo mondo dominato dalla grande distribuzione. Chi veniva pagato sistematicamente con due o tre mesi di ritardo, oggi sarebbe disposto quasi a lavorare per la metà. Chi cercava di arrivare, senza troppi acciacchi alla pensione, si accorge che il suo traguardo dovrà essere ridefinito e già si accontenta di non essere fra le vittime.
Crescono precarietà e disoccupazione come orizzonti futuri per i Millennials ed ancor più per i Post-Millennial (la generazione Z). Rischiano di subire più di tutti le conseguenze della pandemia. Per intenderci, costoro sono i figli degli eroi di oggi che rischiano di vivere un lungo ed infinito domani, senza alcun eroismo... riconosciuto.
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