Ci vorrebbero più equità ed umanità anche negli affari di guerra
"All eyes on Rafah" immagine creata tramite IA per attirare l'attenzione su quanto accaduto nella città meridionale della Striscia.
Tutti gli occhi sono puntati su Rafah , sono le parole pronunciate da un funzionario Onu mentre Gaza si preparava quattro mesi fa ad un'estensione dell'invasione di terra da parte di Israele. Tutti quegli occhi, puntati dapprima su Kiev , sono stati dirottati sulle sponde della terra di Palestina da un post che ha fatto il giro del mondo, lanciando un appello globale alla pace per quel popolo.
Forse si passa repentinamente, cambiando sentimento ed interesse, da uno sguardo ad un altro perché non si riesce a tenerlo fermo troppo a lungo su un abisso che dura oltre il limite dell'attenzione.
Due anni sono difficili da reggere, si è persa la conta dei giorni, in un crescendo di violenza. Del resto, anche gli occhi si stancano di guardare, quando la misura è colma della brutalità dell'uomo. L'indifferenza, talvolta, è una sedazione cosciente.
Confinando il dramma soltanto nel Medio Oriente, teatro di guerra da otto mesi, Rafah non è diversa dai piccoli kibbutz, i villaggi israeliani violati il 7 ottobre né dal luogo del rave nel deserto. L'empatia non dovrebbe avere colori di pelle e di bandiere, né tenere conto di opinioni politiche e fedi religiose che generano schieramenti.
Tutti gli occhi del mondo dovrebbero posarsi ovunque ci sia qualcuno che perde la vita, in un conflitto e in una catastrofe umanitaria, che sia un civile o un soldato mandato al fronte. Gli occhi piangono per adulti e bambini, ebrei e palestinesi, russi ed ucraini, senza alcuna differenza, cristiani e musulmani.
Il genere è umano. Ci si emoziona e ci si indigna soltanto per loro poiché, sebbene nel 2024 i conflitti nel mondo siano aumentati del 40% rispetto al 2020, abbiamo notizia dei due principali in quanto i media vi si concentrano per la maggiore rilevanza internazionale. Tuttavia, non è che gli altri smetterebbero di soffrire e morire se, conoscendone le sventure, li si guardasse per un po'.
Il dramma nel dramma è che il sentimento dell'opinione pubblica, pur essendo dilagante, di solito non cambia purtroppo la forza dirompente degli eventi, se non marginalmente e tardivamente. Non sarà pertanto un post pubblicato da celebrities e da persone comuni a mutare le decisioni dei gabinetti di guerra o ad aiutare le diplomazie mondiali a risolvere certi conflitti.
Tutti gli occhi di chi pensa seriamente a queste maledette guerre, oltre l'attimo fuggente della visualizzazione e la condivisione di un reel, restano ormai asciutti anche per gli ospedali distrutti che non hanno più niente con cui curare e per gli operatori sanitari in prima linea e al fronte .
Essi sono una categoria invisibile, forse non si sa bene come catalogarla, se tra i civili innocenti o gli eroi che, come i militi, muoiono in servizio per la patria.
L'altro giorno è morta una dottoressa ucraina, decorata al valore, che era tornata ad operare negli ospedali da campo. Soltanto una frase su di lei, in un reportage di un inviato. Non se ne dà conto altrove. La pietà negli occhi digitali dovrebbe esserci non solo per i bambini affamati di Gaza, orfani di padre di madre, ma anche per quelli ucraini che, rapiti alle loro famiglie e portati in Russia come in un progrom per fare loro perdere radici ed identità, non hanno una sorte migliore.
“All eyes on Rafah” mi genera un senso di disagio, una sorta di dolore che crea crepe . Sono soltanto quattro parole, ma riescono a fare distinzioni. Considerando che dietro l'intelligenza artificiale ci sta la mente di qualche uomo che la programma, realizzo sgomenta che è stata concepita consapevolmente ed intenzionalmente una visione che suscita una empatia differenziale.
Lo scopo è suscitare un comune sentimento collettivo ma soltanto verso una parte di umanità sofferente. Nei tempi in cui si intende essere particolarmente attenti al senso di inclusione in ogni settore sociale e si vuole agire secondo il politicamente corretto, “All eyes on Rafah”, pur nella bontà dell'intenzione, è divisivo .
Il campo profughi, fissato nel deserto di sabbia e alla luce di un tramonto, sembra finto nella perfezione dei pixel con cui è artificialmente composto. Tutto è in ordine, silenzioso. Anonimo. Non ci sono persone, solo tende. Pur nell'intensità del messaggio che vuole essere di estrema vicinanza ad un popolo, tutto appare invece freddo e distaccato, come fosse un altro mondo.
L'immagine non corrisponde infatti alla geografia del luogo né all'aspetto della tendopoli di oltre un milione di persone sulla quale pende la furia di Israele . È lontana, così vista dal cielo, radente come la luce che scende lungo i filari della tendopoli.
Una fotografia qualsiasi dalla Striscia rasa al suolo e dei suoi abitanti sarebbe stata decisamente migliore per rendere l'idea della distruzione del luogo, oggi considerato il più inospitale del pianeta, e della grave minaccia alla vita dei suoi abitanti.
È edulcorata, con i filtri e la perfezione del colore innaturale. Forse abbiamo bisogno di altra realtà virtuale, immersi come siamo nei social, in cui imbatterci per caso in virtù di un algoritmo? Forse non bastano le immagini vere dei reporter nei telegiornali?
Forse ci pensiamo di più se l'immagine costruita al computer ci fa meno male, visto che un pubblico più delicato potrebbe essere suscettibile?
Forse basta condividere “All eyes on Rafah” per sentirci improvvisamente attivisti e partecipi di un evento che merita una nostra presa di posizione? Forse gli occhi sono diversi a seconda di dove si guarda?
Si osservano gli eventi del mondo, sempre più a distanza di sicurezza, attraverso lenti diverse in base ad idee costruite, prese a prestito o intrise di pregiudizi. Forse che uno sguardo è più degno di attenzione laddove la tragedia ci appare più enorme, in termini numerici e di devastazione? Forse tutto dipende da come ci viene raccontato?
Mi chiedo se le persone credano che quasi 40mila palestinesi morti in otto mesi valgono di più di poche migliaia di israeliani trucidati in un solo giorno e più ancora dei 10 mila ucraini deceduti in oltre due anni di guerra.
Che i feriti e gli ostaggi da una parte siano meno di quelli che stanno dall'altra? Che i 600 bambini ucraini, soltanto perché decisamente meno, non hanno lo stesso valore degli oltre 12mila bambini palestinesi che hanno perso la vita per gli attacchi aerei e le operazioni di terra?
Ne basterebbe anche uno soltanto per dire basta. Forse che un missile russo comandato a distanza per centrare come bersaglio un affollato centro commerciale o un palazzo a Kiev è diverso da uno dell'Adf che cade su povere tende in un campo infangato di sfollati?
Gli occhi dovrebbero bruciare di lacrime, anche a distanza, perché la polvere delle macerie e il fumo degli incendi è uguale dappertutto.
Se tutti gli uomini sono uguali di fronte al dramma della guerra, allora si dovrebbe prendere posizione in ogni conflitto e ad ogni massacro, a prescindere dalle nazionalità e dalle simpatie. A ben guardare, in fondo, sia ucraini che palestinesi sono degli aggrediti, in maniera continua e spropositata. Eppure, i cortei lungo le strade delle città, che marciavano per l'Ucraina nei primi mesi, si sono fermati.
Oggi la mobilitazione degli studenti universitari occidentali, gli unici a far sentire la loro voce dal vivo, si schiera tuttavia soltanto per una piccola parte di mondo perché lo vogliono abitare in pace, ignorando la guerra che hanno già in Europa. Generano così ulteriore schieramento ideologico ed alimentano per primi il conflitto, non solo andando allo scontro con i manganelli della polizia ma ostacolando ogni forma di dialogo.
A ben guardare, abbiamo tutti qualcosa, chi una pagliuzza chi una trave, che ci offusca la vista e che ci fa sentire in un modo diversamente umano, come anestetizzato. Non sarà certamente uno slogan da record rilanciato da 40 milioni di utenti e che fa impazzire i social a far cessare il fuoco a Gaza. In ogni caso, Ci vorrebbero più equità ed umanità anche negli affari di guerra.
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