Sicario, una parola pesante come pietra che lapida il corpo della donna

L’italiano è come la matematica: non è un’opinione e le parole pesano. Vorrei che fosse stata usata la parola “sicario” per chi uccide in guerra o inquina un fiume, rende schiavo un uomo o semplicemente volta lo sguardo da un’altra parte mentre centinaia di vite scompaiono nel Mediterraneo. È ben strano che nella differenza fra il corpo dell’uomo e quello della donna, ci si trovi sempre a gestire il corpo di lei, secondo i desideri e le scelte di lui.

Parole pesanti come pietre, che tornano a lapidare il corpo della donna

Papa Francesco ha detto che abortire è come affittare un sicario per risolvere il problema

Sicario deriva dal latino “sica”, termine che indicava un pugnale appuntito e ricurvo, importato dalla Tracia forse, in genere utilizzato per commettere i delitti su commissione in epoca romana.

È una parola precisa, che non lascia spazio a interpretazioni, fraintendimenti, estensioni o corruzioni lessicali. C’è il sicario assoldato dalla Mafia e c’erano quelli dell’Ovra fascista, che ammazzarono i fratelli Rosselli, e quelli nelle bowery newyorchesi, sempre e comunque legati alla criminalità comune o organizzata, attivata su mandato. In questo caso, oltre oceano, la parola si trasforma in “killer”, comunicando un senso di inquietudine quasi fascinosa. Se alla base dell’azione c’è però la scelta politica si parla meglio di terrorista.

Alla fine l’italiano è come la matematica: non è un’opinione, e le parole pesano. Pesano come pietre, cattive, ideologiche, fredde e indifferenti a ciò che possono produrre e scatenare. A ciò che possono legittimare o condannare.

Come professionista della sanità in questi giorni non posso non pensare a come possano sentirsi coloro che lavorano in un consultorio o in un ambulatorio ginecologico, o in una sala operatoria dove, secondo una legge moderna e umana, una donna è messa il più possibile in condizione di poter guardare alla maternità come una scelta e non come un’imposizione, un obbligo riparatore o un prodotto del suo essere femmina, ultimo atto di una vergogna compiuta.

Io come operatore della salute non posso non pensare ai medici, agli psicologi, alle infermiere, alle ostetriche e a tutti coloro che sostengono con la loro conoscenza scientifica, il loro mandato professionale, la loro scelta individuale chi ha bisogno di non sentirsi sola, abbandonata e, soprattutto probabile vittima di un aborto clandestino.

Come professionista della salute considero importante non dover mai imporre le mie scelte e la mia volontà agli altri, neanche quando tutto sembra legittimarla. Non sempre sono in condizione di farlo, non sempre è giusto farlo e non sempre ne capisco il senso.

Sempre però mi sforzo di ricordare che il mio operato nasce dall’incontro della mia professionalità con il bisogno espresso del soggetto che ho di fronte e del suo contesto di vita.

L’uguaglianza parte dal riconoscimento delle differenze

Ed è ben strano che nella differenza fra il corpo dell’uomo e quello della donna, ci si trovi sempre a gestire il corpo di lei, secondo i desideri e le scelte di lui.

Ho ben chiaro che ora sto vivendo in un paese dove la situazione è molto difficile e complicata, dove è più facile sostenere le pulsioni della gente, che non i bisogni delle persone, ma pensavo, stupidamente fino a ieri, che vivessimo un tempo in progressione, dove le scelte, e le conquiste fatte, i diritti acquisiti con pazienza e con le lotte, con determinazione e sacrifici, potessero costituire la base per ulteriori sviluppi giusti e solidali.

Pensavo che la ragione potesse essere uno strumento per sostenere i sentimenti ed invece vedo che i sentimenti vengono stressati per negare le ragioni; per addormentare la ragione, in un sonno che genera mostri

Vorrei tirare fuori cifre, dati, numeri che parlano della diminuzione delle interruzioni volontarie di gravidanza, grazie ad una legge moderna, mentre aumenta la mortalità femminile causa i vecchi aborti clandestini.

Vorrei che fosse stata usata la parola “sicario” per chi uccide in guerra o inquina un fiume, rende schiavo un uomo o semplicemente volta lo sguardo da un’altra parte mentre centinaia di vite scompaiono nel Mediterraneo. Vorrei poter denunciare ad alta voce il calcolo economico e di potere che sul corpo materno della donna viene fatto. Vorrei, ma non voglio. Al di là di ragioni valide, numeri concreti, idee progressiste, l’unico concetto che riesco ad esprimere è quello di essere di parte.

Sono un infermiere partigiano

Sì, sono un infermiere di parte e per questo partigiano.

Partigiano delle ultime, di quelle abusate, negate, stuprate e giudicate per la loro bruttezza, contro un mondo fatto di misoginia prima ancora che di maschilismo.

Sono infermiere di parte, perché credo in una vita migliore sui luoghi di lavoro, fuori dalle frontiere, nei rapporti di coppia e genitoriali, nelle differenze e nella libertà individuale, perché la vita è un valore. Lo è sempre e non solo quando c’è da guadagnarci qualcosa, a spese di qualcuno.

E anche se a qualcuno può non piacere questo mio essere partigiano, io continuo ad esserlo facendo l’infermiere, cioè colui che sta vicino all’infermo, alla donna lasciata sola nel suo “dovere” di maternità.

Da infermiere di parte ho pianto di gioia guardando le donne irlandesi felicitarsi per una conquista sociale e ho pianto di rabbia per le donne argentine cui è stata negata una conquista sociale.

Continuerò a vivere e lavorare in questo paese che ha sempre più bisogno di non essere lasciato solo con gli incubi del passato. E per questo serve essere infermieri e di parte. La parte delle donne. Per smettere di piangere di rabbia.