Interruzione volontaria gravidanza (I.V.G.), Legge 194 promulgata il 22 maggio 1978, ed esattamente 3 anni dopo, 17 maggio 1981, confermata da una consultazione referendaria voluta dal popolo. A 41 anni, quindi, dalla sua entrata in vigore la Legge 194 trova ancora, purtroppo, dei detrattori, degli oppositori e delle persone che fanno appello a un’etica che appare desueta e fuori luogo. Parte di questo Paese si rende giudicante di condizioni che non può comprendere, giudicante del reale dramma che vivono le donne che abortiscono, ma del quale – quasi sempre – non conoscono nulla.
Antiabortisti e lo spettro di un medioevo etico
Per questo libera nos domine, liberaci da tutti quelli che non nutrono rispetto per le donne, da tutti quei “benpensanti” che parlano bene ma razzolano male, da tutti quelli che non provano a comprendere le condizioni che conducono a un gesto così difficile. Liberaci da tutti quelli che vedono le donne come solo un corpo.
Chi ha incontrato nella propria carriera professionale donne, ragazze giovani e magari minorenni “costrette” a rinunciare alla gravidanza può ben comprendere il dramma da loro vissuto.
Ho visto donne di tutte le età piangere ed essere intrise di dubbi, vivere momenti di vera lacerazione psichica, sdraiarsi sul lettino senza riuscire a proferire parola, colpite da un rimorso lecito, ma solo per la morale personale.
Sì, perché deve essere considerata la morale della singola persona. L’etica è un fatto privato, intimo, che varia con il variare delle condizioni, ma non deve mai regredire.
È evidente che l’interruzione volontaria di gravidanza rappresenta un atto medico non indirizzato al recupero della salute, ma nessuno ha il diritto di diventare giudice; nessuno può realmente intendere il dramma che ogni singola donna vive, nessuno si può ergere a censore.
Esiste l’oblio della memoria, di quella memoria che ci riporta indietro negli anni, quelli prima del 1978. Gli anni in cui le donne, per abortire, dovevano fare ricorso alla “mammane” che con dei decotti di prezzemolo applicati in vagina provocavano l’aborto; gli anni in cui le donne dovevano andare dalle “levatrici”, che nel loro studio privato procuravano loro l’aborto facendosi pagare fior di quattrini, arricchendosi grazie allo sfruttamento di una condizione contra legem.
Erano gli anni in cui sedicenti professioniste provocavano l’aborto incidendo il “sacco” uterino con un ferro da calza, causando alle gravide infezioni così gravi da condurle al letto di morte. Ebbene è a questo che si vuole tornare? Alle condizioni in cui il volere e il potere, inteso come possibilità e non come atto di forza, delle donne non conta nulla?
Esiste poi un lato ombroso che lega la professione medica a questa legge, la 194. Ebbene viene data loro la possibilità di promuovere l’obiezione di coscienza, facendogli esercitare un “diritto” etico privato che non sostiene il diritto pubblico sancito.
Questa sorta di “privilegio” morale, cioè il diritto alla scelta, all’opzione, non sempre è stato esercitato con liceità. Sono ben noti casi di ospedali pubblici a carattere religioso dove viene posta come condizione, per poter continuare a esercitare la professione di medico, il sottoscrivere e firmare un contratto come “obiettore di coscienza”; cioè di medico non praticante l’atto chirurgico dell’interruzione.
Sono pure esistiti casi di ospedali - ne sono cronaca alcuni recenti fatti - dove non è possibile adempiere alla Legge 194 in quanto tutti i medici ginecologi si sono dichiarati “obiettori di coscienza”.
Sappiamo benissimo che tali dichiarazioni non erano e non sono legate all’esercizio della propria sfera morale, ma solo al desiderio di non dedicare parte della propria professione ad una chirurgia cosiddetta minore. Ma qui si rasenta il ridicolo: forse non tutti sono a conoscenza che il medico obiettore può visitare la donna che ha fatto richiesta di IVG, producendo loro il certificato di intenzione a ricorrere alla Legge 194. Quindi medico obiettore solo per l’atto chirurgico, ma non per “intascare” i soldi della visita.
Oggi, fortunatamente, le donne che hanno un minimo di scolarità e una famiglia alle spalle ricorrono all’azione preventiva della pillola anticoncezionale. Ma io ricordo benissimo quando la donna che decideva di assumere ”la pillola” non poteva comunicarlo alla comunità, pena l’essere additata come una "dai facili costumi", una poco di buono.
Allora siamo proprio così sicuri di voler fare marcia indietro? Di voler rendere un atto del singolo come una questione sociale, traslare ciò che riguarda la sfera privata a quella della collettività?
Aver la possibilità di scegliere, anche quando la scelta è difficile e dolorosa, è un atto di umanità, di responsabilità sociale e di rispetto verso le donne.
Leggere manifesti anti aborto ci fa tornar a quel medioevo etico in cui alle donne non era concesso decidere del proprio corpo, del proprio futuro, della propria vita. Tutto ciò mi indigna e mi preoccupa.
Libera nos domine. Le nostre mamme, le nostre figlie da ogni sorta di ideologia distorta e contorta che ci riporta, tutti, indietro di secoli, all’epoca delle streghe.
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