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editoriale

Difficile fare gli infermieri in un mondo di odio

di Giordano Cotichelli

Si chiamava Razan Ashraf al Najjar, infermiera, palestinese, uccisa dall’esercito israeliano mentre prestava assistenza, mentre aveva le mani alzate e stava tornando indietro, allontanandosi dal confine. Aveva 21 anni. I suoi funerali hanno visto la partecipazione di migliaia di persone a Gaza. Le autorità israeliane hanno aperto un’inchiesta. Quali saranno i risultati, poco potranno fare per restituire la vita alla collega uccisa e ai tanti palestinesi morti in questi giorni. Eppure se il diritto, le norme e le leggi di una “giustizia giusta” hanno senso di essere, per chi dà loro valori universali e transnazionali, forse la ricerca della verità e la denuncia hanno un senso.

Razan, uccisa mentre faceva il suo lavoro: l’infermiera

razan ashraf al najjar, infermiera

Razan Ashraf al Najjar era, infermiera, ha perso la vita mentre faceva il suo lavoro

Ma le vite umane pesano troppo per potersi caricare di ulteriori significati che ne giustifichino o ne condannino il sacrificio.

Per qualche collega probabilmente la morte di Razan Ashraf al Najjar dice poco. Altri facilmente risponderanno che muoiono tanti israeliani sotto gli attacchi terroristici. O muoiono tanti infermieri italiani per colpa … degli stranieri.

Sensibilità ed onestà non sono di moda di questi tempi. Men che meno l’intelligenza, la ragione e lo sforzarsi di cercare di spiegare, analizzare, confrontarsi e dibattere hanno solo la funzione di rafforzare le “fake news” con cui ci si carica facilmente di semplici dogmi per leggere una realtà sempre più difficile.

Probabilmente in tal senso molti leggeranno anche la morte di Sacko Soumalya, 29enne maliano, ucciso il 2 giugno (un giorno dopo Razan), in Calabria, da quello che sembra essere, sempre più, un’esecuzione della criminalità organizzata.

I più hanno sbraitato che il giovane stesse rubando (anche se così fosse, nulla giustifica l’omicidio) delle lamiere. In realtà le stava recuperando da un luogo abbandonato. Altri puntano il dito sul fatto che il giovane fosse impegnato sindacalmente. Altri, gli stessi di prima, diranno: “Se ne poteva stare a casa sua”. E qualcuno mi potrà accusare di essere di parte (vero, verissimo!), di non parlare dei negozianti uccisi durante le rapine o di legittimare l’aumento di clandestini che porteranno ad una sostituzione etnica degli italiani. O altro ancora.

Come infermiere assisto, non giudico, questo è il mandato. Come persona sostengo e mi confronto, questo è quello che significa appartenere al genere umano. Se poi tutto questo non bastasse, allora come uomo libero, attivo, militante mi troverò sempre pronto a denunciare e a contrastare tutto e tutti coloro che vanno contro i più deboli, contro gli ultimi, i capri espiatori di sempre.

Personalmente sono contro le violenze, le armi, il razzismo e i razzisti, l’apartheid ed ogni forma di dominio dell’uomo sull’uomo e credo che questo c’entri con il lavoro d’infermiere, con il mandato professionale ed istituzionale che ogni professionista dell’assistenza porta con sé.

E c’entra anche con il mandato culturale cui ognuno ama far riferimento, perché non esiste cultura, ideologia o religione al mondo, se non opportunamente strumentalizzata, che non voglia pace, prosperità e lavoro. Il problema è come, a chi e perché. E qui mi trovo costretto a fare una forzatura dialettica, a rivolgermi a chi è più preoccupato dall’avanzare della teoria del gender che non della mancata copertura vaccinale e fargli una semplice domanda: Se gli infermieri, ed ancor più i medici, o in generale ogni singolo professionista del welfare sanitario e sociale di questo paese, utilizzassero nella presa in carico del bisogno di singoli e comunità, la stessa visione di pensiero del se la sono cercata, credete di avere proprio tutti i diritti di essere curati o assistiti?

Lungo questo stesso ordine di pensiero non si dovrebbe curare chi fuma o abusa di alcol, riporta un trauma causa eccesso di velocità, o mangia fiorentine spesse un metro tutti i giorni.

Se la colpevolizzazione dell’altro è la chiave di lettura della risoluzione dei problemi di questa società e la caccia al capro espiatorio è lo sport nazionale, perché non dovrebbe valere anche per l’assistenza e la cura sanitaria?

Alla fine il mio è solo un semplice esercizio di retorica per sottolineare, come infermiere e come persona, di essere vicino alle colleghe uccise in guerra – e non solo – e a tutti gli ultimi della terra che restano vittime dell’odio.

Come infermiere assisto, non giudico, questo è il mandato. Come persona sostengo e mi confronto, questo è quello che significa appartenere al genere umano. Se poi tutto questo non bastasse, allora come uomo libero, attivo, militante mi troverò sempre pronto a denunciare e a contrastare tutto e tutti coloro che vanno contro i più deboli, contro gli ultimi, i capri espiatori di sempre.

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