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Editoriale

Prima del 25 aprile

di Giordano Cotichelli

La luce dell’alba filtra dalle finestre. Nel lungo corridoio che attraverso, il silenzio si incrina appena ad ogni mio passo, per rinsaldarsi alle mie spalle. Dalle altre parti già i rumori del giorno cominciano a dilagare fra i padiglioni. Varcano le entrate di servizio, fanno le scale, salgono sulle ruote di un carrello e si perdono nel flusso di porte che si aprono e si richiudono, quasi ritmicamente. Qualche voce, qua e là, prende possesso del mondo. Fra poco la fabbrica della salute entrerà a pieno ritmo in una sua nuova giornata di vita. Ma qui, in questa parte dell’ospedale, tutto resterà immobile in una vitalità silenziosa. Quando hanno iniziato a costruirlo, l’ospedale, qui ci doveva essere il settore delle camere a pagamento. Nei fatti però non sono mai state attivate. Chi ha i soldi per pagare le cure difficilmente si ammala. E chi si ammala spesso non ha i soldi per curarsi. Chi ha i soldi, si fa curare a casa, come chi non ce l’ha, ma non è la stessa cosa.

Una delle tante storie della Resistenza

I partigiani Sergio Minozzi e Laura Guazzaloca

In qualche stanza c’hanno fatto dei magazzini, un paio di ambulatori e quella che noi chiamiamo la sala operatoria bis. In realtà non ci facciamo nessuna operazione. È solo il deposito dei materiali per le chirurgie.

Lo spazio è tale che ci permette di sistemare un po’ le cose, piegare e tagliare le garze, preparare i batuffoli e le lunghine, sistemare qualche ferro, mettere ad asciugare i guanti in gomma per poi sterilizzarli in autoclave.

Dicono che li hanno inventati, i guanti, per un’infermiera di sala operatoria, moglie di un chirurgo. Di sicuro non per una lavandaia. Qui dentro c’è sempre un po’ di disordine. È normale. A rotazione una di noi salta il turno in sala e sistema un po’ le cose. Le rimette in ordine con tranquillità e riprende fiato un po’, perché dieci giorni filati sotto la scialitica sono duri da fare.

Dal finestrone della stanza adesso entra ancora più luce. Il sole di questo inizio d’autunno, per fortuna, mitiga un’aria che fa presagire un lungo e freddo inverno. Forse l’ultimo di guerra? Da fuori non entra solo il sole, ma anche i rumori della strada. Un camion è in arrivo. Strano è domani il giorno delle consegne della biancheria.

È un camion di tedeschi. Anzi sono due. No, tre. Si sono fermati in mezzo al cortile dell’ospedale. Dal primo veicolo e dall’ultimo scendono i soldati. Che si avvicinano abbaiando, come tutti i militari in guerra, al camion di mezzo. Uno alza l’apertura del telone. Ecco, scendono dei civili. Una dozzina in tutto. Ci sono un po’ di ragazzi. Madonna quanto sono giovani. Due in particolare.

E poi scendono un paio con una fascia bianca al braccio. Saranno feriti. A no! Sono dei medici, o degli infermieri, c’è una croce rossa pitturata sopra. E… Laura? Ma chi è? No. Non è possibile. Ma sì, è Laura! Mio dio che faccia. Ma che ci fa lì in mezzo. Che ci fanno tutti questi in mezzo al cortile dell’ospedale. Ecco, uno si stacca dal gruppo. Sembra l’unico ben vestito. Si avvicina ad un ufficiale tedesco, parla, gesticola, si muove un po’ ed indica due o tre del gruppo. Se ne va! Se ne sta proprio andando. Ora lo riconosco: è il cugino del podestà. Che cavolo ci fa in mezzo a tutti questi. È uno che non ha fatto mai niente in tutta la sua vita. Prepotente, sbruffone e ballista come non pochi. Se non era per il cugino, a quest’ora manco a spargere letame per i campi lo prendevano. Devo capire. Laura, c’è Laura. Scendo giù.

Faccio le scale a balzi. Non credevo di avere le gambe così lunghe e la schiena così elastica. Se sbaglio un gradino probabilmente mi spiaccicherò in terra senza rialzarmi più. Cazzo di grembiule! Ogni volta rischia di impigliarsi nel corrimano, o in una gamba o in un non so manco io cosa. I pantaloni ci vorrebbero, altro che sti sarcofaghi da suore fallite! Se mi ammazzo per le scale sarà pure colpa del grembiule.

Eccomi. Sono fuori. Dal gruppone saranno non più dieci metri, ma è una distanza infinita. I tedeschi non mi permetteranno mai di superarla. Non mi hanno ancora vista. Rientro. Che faccio. Che faccio? Sì, ecco, il caffè. Allungo verso la cucina dove c’è ancora del caffè avanzato della colazione. Ne prendo un bricco, metto un po’ di bicchieri in una cesta e torno indietro. Sono di nuovo fuori. La cesta è in terra e tengo il bricco del caffè in mano in maniera molto visibile, per farmi vedere dai soldati. Sto ferma, quasi sull’attenti. Ecco, guardatemi! Il mio corpo trasmette ordine e tranquillità, anche se sto tremando come una foglia.

Ci voleva. Mai bevuto caffè più buono di questo. L’orzo dell’ospedale non lo batte nessuno. Che ci fate qui, Laura?, le dico sottovoce. Ci hanno presi nella canonica di Cavina. Eravamo lì con i due medici e i feriti che erano rimasti indietro. C’è pure Sergio. Mi giro e guardo verso il gruppo che si è addossato al muro a bersi il caffè. Stringo gli occhi e lo vedo. Anche lui. Si avvia verso di me, piano, saggiando quanto spazio può percorrere verso di me prima che i soldati di guardia gli sparino addosso.

Ciao – mi fa Sergio appena mi è vicino e allunga il bicchiere per prendere un’altra goccia di caffè. Domani ci trasferiscono. Forse a Ravenna. Non so, ma sembra che forse ci sbattono in galera. Magari ci mandano in Germania, ma niente di più. Due soldati tedeschi cha avevamo come prigionieri hanno parlato bene di noi e… insomma… non ci hanno fucilati subito. Buon segno. Poi a Ravenna vediamo come va.

Sergio, non riesco a dire altro. La gola stretta in una morsa, gli occhi velati di paura e il cuore che non batte più… troppe cose per riuscire anche a dire solo una parola. Oh, tranquilla dai. Te l’ho detto. Dopo Ravenna, si va in Germania e poi aspettiamo lì la fine della guerra. Non ci sarà più molto. Poi torno, e riprendiamo i turni assieme. Mi devi ancora la notte di Natale di tre anni fa, rispondo per non morire.

Non me ne frega niente del cambio turno, ma penso che se glielo rinfaccio ora, sarà un motivo di più par farlo tornare poi. Beh, un debito è un debito. Sai che i cambi li ho sempre restituiti. Sì, allora mangi, fa Laura intromettendosi felicemente in un discorso troppo finto per essere sopportato oltre. Un paio di ordini abbaiati ad alta voce ci fa sobbalzare. I tedeschi si stanno agitando e cominciano a gesticolare e ad urlare alla volta dei prigionieri che piano piano si spostano verso il lato opposto del cortile.

Ci fanno passare la notte nella lavanderia. Poi, forse domani, sul tardi, ci trasferiscono, mi fa Laura mentre si allontana con Sergio. D’accordo. Domani torno prima che partiate. Presto, vengo presto non vi preoccupate. Sì, presto. Eh? Si allontanano. Sergio si volta, mi sorride e muove le labbra: Na-ta-le, scandisce senza pronunciare nessun suono. Gli mando un bacio. Tutti scompaiono dentro il locale.

Chiudo gli occhi e mi ritrovo lì, il giorno dopo, davanti alla porta della lavanderia spalancata. Vetri in terra, un paio di tende che svolazzano impazzite fuori dalle finestre lasciate aperte. Il sole rischiara tutto, ma non riesce a scaldare il freddo che è piombato giù, nell’anima. Durante la notte quelli della Brigata Nera sono venuti a prenderli: Sergio, Laura e tutti gli altri.

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