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Editoriale

E l'ostaggio disse Shalom

di Monica Vaccaretti

E l'ostaggio, alla fine della sua prigionia, disse shalom al suo carnefice cercando con il suo palmo la mano dell'uomo che ancora impugnava un'arma da fuoco. Il volto magro e rugoso della donna anziana, libero, si gira verso quello integralmente coperto di nero del guerrigliero di Hamas. Potrebbe essere un figlio, avere l'età di un nipote. Lo trova, gli stringe la mano. È ricambiata, con sincerità o con inganno non si sa. Poiché è un video diffuso da Hamas, sembra propaganda.

È difficile scorgere un volto umano in un terrorista

Yocheved Lifshitz, 85 anni, mentre al momento del rilascio dice ai miliziani di Hamas "Shalom".

La donna ha occhi tristi, si muove con la lentezza dei suoi anni e dei giorni vissuti sottoterra, o per il peso che si porta nel cuore. Sembra compiere l'atto all'ultimo momento, come un gesto che quasi dimenticava ma che aveva in animo, prima di essere affidata agli operatori della Croce Rossa che le vanno incontro sul posto designato per il rilascio.

Nel silenzio di una notte israeliana, in un luogo buio e sconosciuto, fa impressione che una donna sia stata capace di un umile segno di pace che ha dell'incredibile, considerando l'orrore di cui è stata vittima, pur avendo avuto risparmiata la vita.

Ho visto l'inferno, l'ho attraversato, ha confidato durante la conferenza stampa in ospedale. Quella stretta di mano insegna forse il coraggio del perdono, della pietà, del dialogo.

Il suo "shalom" è una predisposizione di umanità verso l'altro. Non conosciamo i moti dell'animo dell'uomo in armi, potrebbe essere sua madre, potrebbe essere sua nonna. Può un uomo che ha massacrato i vicini di casa della donna, in un mix di droghe e malvagità, e che ancora tiene in ostaggio il marito, avere buoni sentimenti?

Anche i nazisti erano buoni padri di famiglia e desideravano ogni bene per coloro che amavano. Erano capaci di amore tra i loro simili. Erano esseri umani normali che facevano le cose di tutti gli esseri umani.

Sono stati gentili con me, ci trattavano bene. I feriti sono stati curati, ad alcuni sono stati somministrati antibiotici. Dormivamo su materassi, ci davano da mangiare. Curavano i nostri bisogni, anche l'igiene personale, affinchè non ci ammalassimo, ha dichiarato Yocheved Lifshitz, 85 anni, liberata assieme ad un'altra donna di 75 anni.

Ogni due, tre giorni veniva un medico per vedere come stavamo e l'infermiere si assicurava di darci le medicine, continua la signora. Questa piccola donna minuta - attivista per la pace, abitante di un kibbutz, portata via in motocicletta e bastonata sulle costole sino a toglierle il respiro - è tornata dai suoi familiari dopo aver augurato shalom. Spero che tutti quelli che erano con me tornino presto.

Sono stati giorni dimenticati da Dio

Come se anche il Dio biblico degli Eserciti si sia girato dall'altra parte o si sia fatto trovare impreparato come gli 007 del Mossad. A ricordare gli eventi – di cui si è discusso duramente all'Assemblea delle Nazioni Unite - ci hanno pensato i militari israeliani che hanno fatto visionare ai leader occidentali e a 150 giornalisti stranieri un video di 43 minuti che documenta tutto l'orrore scatenato quel 7 ottobre.

Adesso provate a raccontare a parole quello che avete visto, hanno poi esortato rivolgendosi ai media. Gli inviati raccontano che le immagini, non pubblicabili per il troppo orrore, sono difficili da sostenere fino all'ultimo frame.

In attesa di una auspicata tregua umanitaria e di un'offensiva di terra - che pare rimandata per procedere con le trattative per liberare altri ostaggi - gli ospedali a Gaza sono al buio. Il carburante è finito, come il pane.

Fonti locali denunciano che sei ospedali hanno chiuso, altri stanno sospendendo le attività. L'Oms avverte che il sistema sanitario palestinese si sta disintegrando. I neonati, se le incubatrici perdono elettricità, muoiono in cinque minuti, avvisa un medico palestinese intervistato in una terapia intensiva neonatale. Alle strutture sanitarie viene ordinato di evacuare ma senza piani su come continuare le cure per i pazienti ricoverati o con patologie croniche come i dializzati.

Nell'articolo “Salute nei territori palestinesi occupati” (Lancet, 2009), Richard Norton spiegava che la speranza di migliorare la salute e la qualità della vita dei palestinesi esisterà solo una volta che le persone riconosceranno che le condizioni strutturali e politiche che sopportano nei territori palestinesi occupati sono i determinanti chiave della salute della popolazione.

L'autore ricorda che all'epoca era stata creata la Lancet Palestine Health Alliance, un'ampia rete di ricercatori palestinesi, regionali ed internazionali impegnati a rispettare i più alti standard scientifici nel descrivere, analizzare e valutare la salute e l'assistenza sanitaria dei palestinesi.

Lo scopo era quello di incoraggiare una nuova generazione di scienziati sanitari palestinesi a considerarsi parte di una ricerca congiunta attraverso la collaborazione accademica, lo sviluppo di metodi scientifici specifici della cultura e la promozione di una maggiore capacità di ricerca.

Secondo l'autore esisteva un'opportunità unica di utilizzare la salute e la scienza medica come mezzi per realizzare una ricerca comune, accogliendo diversità e disaccordi e promuovendo, anche nel mezzo di conflitti, una cultura del dibattito più produttiva. Difficile pensare che questo sia possibile oggi, mentre l'antisemitismo rifiorisce in tante coscienze sparse nel mondo e la devastazione continua tra la popolazione palestinese.

In questo momento di calamità è fondamentale aggrapparci alla fede in un futuro in cui i migliori di noi ricercatori, scienziati ed operatori sanitari potranno prosperare, insieme in pace, è la speranza di Norton.

Se si vuole comprendere il disastro umanitario in atto oggi a Gaza, i non ebrei devono accettare le paure di distruzione esistenziale che l'atto omicida del 7 ottobre ha riacceso negli ebrei. La vastità dell'Olocausto lo rende incomparabile con le tragedie umane del passato e del presente. Descrivere come Olocausto il massacro di oltre 1400 israeliani da parte di Hamas ci dice qualcosa di immenso significato, ha sottolineato Richard Norton nell'articolo “Non ho nessun posto dove andare” (Lancet, 2023) in cui descrive la drammatica situazione nella Striscia.

Ho appreso l'importanza duratura dell'Olocausto, non come fatto storico, ma come realtà attuale, ha sottolineato. Quasi tutti i medici ebrei che ho incontrato hanno qualche legame familiare con l'Olocausto. Il tentato genocidio del popolo ebraico e il pericolo costante di un nuovo genocidio sembrano animare ogni dimensione della vita ebraica. Gli ebrei israeliani si arrabbiano quando la parola Olocausto viene usata per descrivere catastrofi umanitarie subite da altri.

Shalom è una parola bellissima sulle labbra di una donna ebrea del 1938

Ha un valore doppio. Non c'è odio nel suo sguardo, seppur spaurito. Non c'è traccia di sentimento di vendetta, seppur prigioniera. Shalom, che significa pace, non deve essere intesa soltanto nel senso di assenza di conflitto. Shalom non è arrendevolezza e debolezza.

Non c'è shalom quando si parteggia faziosamente. Non c'è shalom fintanto che nei cortei lungo le strade del mondo si mandano ancora gli ebrei ai forni, anche soltanto a parole, e si inneggia alla Jhihad. Shalom esprime una dimensione originaria della vita umana caratterizzata dall'abbondanza e dalla pienezza di senso, dal benessere e dalla completezza.

Dalla lettura dei Testi Sacri emerge che Shalom è l'armonia psicofisica dell'uomo nei contatti con i suoi simili e nel suo rapporto con Dio. È il vigore del corpo e la bellezza dell'animo umano.

È una condizione di tranquillità e di compiutezza, di interezza e di pienezza nella vita di ogni persona. Come Shalom è il saluto ebraico per eccellenza, che augura ogni bene all'altro, così la pace del mondo sembra passare attraverso la storia irrequieta di questo popolo antico.

Shalom è ricomporre i resti e restituire identità, integrità e dignità ai 1400 israeliani. Neanche una goccia di sangue deve andare perduta per gli ebrei. Shalom è risparmiare la vita dei bambini palestinesi, recuperare gli ostaggi, fare entrare tutti gli aiuti umanitari, aprire il confine con l'Egitto.

È shalom ogni volta che un operatore umanitario porta aiuto alla popolazione. Fa un gesto di pietà e di carità, di solidarietà. È shalom ogni operatore sanitario che trasporta un ferito in ambulanza correndo tra bombe e macerie, che esegue un operazione chirurgica in condizioni estreme.

Shalom è fare in modo che gli orrori commessi nel deserto e nei kibbutz non siano tollerati, giustificati, dimenticati, distorti. Per trovare un'alternativa alle bombe, ogni uomo dovrebbe davvero farsi shalom per l'altro.

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