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editoriale

Caivano. L’8 settembre d’Italia

di Giordano Cotichelli

Dopo i drammatici fatti di Caivano (due tredicenni stuprate), la premier è andata nella città campana per far sentire la vicinanza delle istituzioni in un luogo di sofferenza, dopo l’ennesimo episodio di degrado sociale. È seguito poi un maxi blitz di 400, fra poliziotti e carabinieri, al fine di far sentire maggiormente la presenza dell’ordine costituito operando sequestri di denaro, armi e droga in mano alla criminalità del posto. Infine, ieri, una serie di provvedimenti per contrastare la criminalità giovanile, è stata presentata con l’affermazione: Lo Stato ci mette la faccia. Cosa significhi, oltre i mucillaginosi margini dello slogan elettorale, è difficile da dirsi.

Intanto un’altra donna è stata ammazzata da un suo ex-compagno: Marisa

Giorgia Meloni a Caivano: Questo territorio sarà radicalmente bonificato

L’assassino poi si è tolto la vita. Resta sola, priva di genitori, la figlia di tre anni.

Chissà se lo Stato, ci metterà la faccia per garantire a questa sventurata una crescita ed una vita il più possibile “normale” in un paese dove mancano assistenti sociali, sanitari, operatori per sostenere i servizi di cura ed assistenza ad ogni livello.

Le prove muscolari risolvono poco i problemi. Anzi, rischiano di acuirli. La metodologia liberista della classe politica di questo paese è ben sintetizzata dagli slogan urlati, dai decreti improvvisati, da un presenzialismo del fare che alza tanta polvere per poi risolvere ben poco. Un po’ come accade in tutto il paese, dove è sempre più difficile andare avanti. Qualcuno che crede che basti fare la voce grossa, forse per coprire soprattutto le sue responsabilità, c’è sempre. Come in tanti servizi allo stremo, come in ospedale.

C’è un reparto ingorgato di pazienti, di visite ambulatoriali, di materiali da ordinare – che non arrivano – di farmaci da sistemare, di terapie da fare, etc. etc., con il personale sempre più ridotto all’osso. Una situazione di cronica sofferenza dove, magari, all’ennesima protesta del personale, della coordinatrice o di fronte all’evento avverso grave che si produce per mancanza di tempo e lavoratori, arriva il primario di turno, o il direttore in carica o un qualsiasi caporione del posto che fa un paio di determine, tre circolari, quattro incontri e un rimbrotto generale.

Quello che non si vede mai quando c’è da faticare, e poi è pronto a rivendicare che: Io ci metto la faccia cari mei! Non ho certo paura di far valere le ragioni del mio reparto, del mio personale. Poi telefona, alza la voce, si fa garantire che l’apparecchio della TAC sarà riparato entro un paio di giorni. Minaccia la direzione se non gli mandano almeno quattro infermieri. Qualche volta sbatte anche qualche porta (ohibò).

Poi richiama, armeggia con il suo cellulare che costa quanto tre stipendi delle donne delle pulizie appaltate. Parla, parla, parla e poi, platealmente, chiude la comunicazione. Borbotta un po’, mostra un volto preoccupato, ma contento di quello che ha ottenuto e intanto guarda verso il fondo del corridoio dove c’è l’informatore/trice di turno che lo sta aspettando per il solito incontro del giovedì. Il capo ci mette la faccia, certo! Ma in realtà sarebbe anche pagato bene per farlo. A rischio zero, peraltro, senza paura di trovarsi a lavorare in piena notte mentre un treno sta arrivando talmente veloce da spazzare via la tua vita e quella di altre quattro persone.

Lo Stato ci mette la faccia? Perché, non dovrebbe?

In realtà di fronte all’ennesimo femminicidio, all’ennesimo morto sul lavoro, al continuo stillicidio di perdita di qualità dei servizi, sembra che la faccia sia ben nascosta da tempo sotto la sabbia. Caivano è un po’ ovunque in Italia e non basterebbero mille facce allo Stato e 40.000 o 400.000 tutori dell’ordine per sequestrare tutta un’economia fatta di sistematica distruzione di diritti, saperi, relazioni, quotidianità normali che possano consentire a tutti di vivere in pace.

Non basta un blitz muscolare, ma ci vogliono anni ed anni di lavoro, di investimenti, di risorse da mobilizzare. Ma per quelle ormai la faccia dello Stato guarda altrove e non resta che temere ad immaginare come risponderà all’emergenza di una sanità al collasso, di una istruzione pubblica spazzata via, di un welfare cui è stato tolto tutto.

Se questa è l’Italia, se è questa la nazione di cui ci si vuol prendere cura ed è questo il metodo, allora siamo nel tempo giusto: settembre, il mese dove i nodi vengono al pettine dopo i rimandi delle ferie agostane. Settembre, il mese che ha visto, cinquant’anni fa, il giorno 8 del 1943, quella che molti storici hanno chiamato la morte della patria.

L’Italia monarchica firmò l’armistizio con le truppe alleate, nascondendo la faccia che aveva perso ormai da tempo nella dittatura fascista, nelle invasioni militari in Africa, Balcani e URSS, nella persecuzione del dissenso politico. Lo stato fascista sicuramente perse la faccia, permettendo per la prima volta la violazione del suolo patrio da parte di invasori nemici a Sud e l’entrata in armi di un invasore straniero in armi, senza colpo ferire, su, al Nord.

A far recuperare la faccia al paese ci pensarono poi milioni di italiani che sopportarono, dopo l’8 settembre 1943, altri due anni di guerra, le violenze criminali di fascisti e nazisti, i bombardamenti degli alleati, la fame, la miseria, i lutti di ogni guerra. E qualcuno di questi italiani scelse poi di opporsi in armi alla faccia muscolare di uno stato dittatoriale di cui tutti volevano liberarsi al più presto.

Fra queste italiane e questi italiani c’erano anche infermiere e infermieri, suore e medici che dalle corsie di molti ospedali organizzarono e costruirono la resistenza per un domani migliore di democrazia, libertà, e giustizia sociale.

Storia nota? Non quanto dovrebbe. Di certo una lezione per l’oggi, per capire che, oltre la faccia, allo stato, al governo, spetta di metterci le risorse per ricostruire un paese devastato da un trentennio di tagli. Ma così non sembra.

Il recente rapporto del GIMBE sottolinea come il paese sia sceso al 16esimo posto per spesa sanitaria e che rispetto ai paesi OCSE il divario è di 47,6 miliardi di euro. Ecco, ai signori del palazzo spetta di mettere le risorse per risollevare il paese, rendere meno iniqua la società, sostenere i più fragili. Il resto sono chiacchiere.

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