Fiera della propria identità di persona, l'8 marzo e sempre
E chi lo vede mai, il sole. O si parte troppo presto la mattina, o si arriva troppo tardi la sera. O tutt’e due .
Come mi chiamo? Poco importa, sono una delle tante. Donna, madre, cristiana, italiana e… lavoratrice. Sì, lavoratrice ringraziando iddio, che di questi tempi non è facile.
Si fa di tutto, pur di portare a casa due lire. Sì, io ancora ragiono in lire dato che la miseria, in lire o in euro, è sempre la stessa. Ed è sempre degli stessi.
Anche oggi due ore di strada ad andare e due a tornare: casa, autobus, treno, autobus, lavoro, autobus, treno, autobus, casa.
La distanza non è poi molta, ma sono le attese che prolungano il viaggio. L’auto? E chi se la può permettere. O i figli, o l’auto. È stato sempre così. Anche prima, quando eravamo in quattro. L’auto ce l’aveva solo lui, perché il Suo lavoro era più importante.
Tanto te ce la fai coi mezzi, no? . Già. Ce la dovevo fare. Alla fine, quando se n’è andato, si è portato via l’auto, la televisione – comprata con la mia tredicesima – e un mucchio di ciarpame che avrà prontamente ammucchiato nella sua nuova cuccia di adolescente fallito. Papà si è portato via la plei , ha esordito quella volta il maggiore. Gli ho detto, mentre mi mettevo l’ennesima borsa del ghiaccio sull’occhio nero, che c’era ancora tempo per diventare scemo come il padre!
A dire il vero non l’ho detto. L’ho urlato. Ero disperata, stanca, delusa e terrorizzata di dover andare avanti da sola, con due figli. Poi è passata. Per forza. Con il maggiore ci siamo chiariti, per amore. E con la piccola ci siamo rincuorati, per organizzarci meglio. Il maschio mi ha detto che non avrebbe mai comprato "la plei". Gli ho detto che se si divertiva, e non diventava scemo, ne poteva comprare anche due.
Allora una è per te, mamma . Ma no! Semmai per tua sorella . Io non ho tempo da perdere , ha esordito la piccola. C’è da tirare avanti la barca dato che siamo tutti sulla stessa baracca . Un pasticcio di parole che più giusto non poteva essere . Ogni tanto ci ripenso e rido fra me e me.
La strada corre via come sempre. A fine mese sarà primavera, ma qui la nebbia si mangia vivi alberi e case anche quando il sole è alto. E chi lo vede mai, il sole. O si parte troppo presto la mattina, o si arriva troppo tardi la sera. O tutt’e due. Quando torno a casa, sono così stanca che mi rincuoro del tempo passato sui mezzi. Almeno dormo un po’. Anche troppo. Un paio di volte mi sono ritrovata al capolinea.
E l’altro giorno ho rischiato addirittura di rovesciarmi la zuppa che mi aveva preparato Aisha. La tenevo dentro ad un contenitore della “tapperueer”, stretto tra le mani e appoggiato sulle gambe che, ad un certo punto, hanno ceduto al sonno. Mi sono accorta in tempo. La zuppa era fatta con… aspetta si chiamava, cosa mi aveva detto Aisha… sì, insomma, roba delle sue parti.
Vabbè, non me lo ricordo, ma era buona però. Ce la siamo mangiata tutt’e tre in un lampo. Fortuna Aisha, ché non avevo fatto in tempo per la spesa e rischiavamo di cenare a caffè d’orzo e biscotti. Aisha. È brava Lei sul lavoro! È brava con tutti, ma non così tanto da meritarsi quello che le servirebbe: uno stupido e cattivo pezzo di carta!
Aisha è nata qui, ha fatto le scuole qui, parla l’italiano meglio di me e il dialetto meglio del mio ex. Però Aisha non ha diritto ad uno stupido e cattivo pezzo di carta che le permetta di vivere degnamente in questo paese. Almeno tu sei italiana , mi ha detto una volta. Già, ma non basta, sai? Anzi, a volte mi domando se ci sono italiani più italiani degli altri , le ho replicato.
Come i maiali , ha aggiunto. Le ho chiesto cosa c’entrassero i maiali. E lei mi ha detto di un libro che parla di una fattoria dove gli animali fanno la rivoluzione contro il padrone1 . Un bel romanzo che glielo aveva fatto leggere l’insegnante d’inglese quando andava a scuola.
Se vuoi ti presto la mia edizione italiana , aveva aggiunto. Gliel’aveva regalata Irene, la sua compagna. Erano scappate entrambe dalle rispettive famiglie. Quella di Aisha aveva minacciato di ammazzarla perché sospettava si fosse innamorata di un italiano. Quella di Irene invece, sempre con intenti omicidi, causa la certezza che si fosse innamorata dell’italiana sbagliata.
Aisha e Irene . Chi ci crederebbe. I primi tempi era stata dura per entrambe. Senza soldi, lontano da casa e un po’ fuori dagli schemi dell’italica moralità. Le aveva aiutate una suora conosciuta sui social. Io sono musulmana , aveva esordito Aisha quando si erano incontrate per la prima volta. Ed io sono atea , aveva rilanciato Irene. Bene, ed io sono cristiana, quindi?! aveva replicato la suora, ed aveva sbattuto loro in faccia il libro che stava leggendo, di un autore spagnolo - o forse messicano - che parlava di suore che nel XVIII secolo si erano ribellate al loro vescovo. Laggiù, in Nuova Spagna, al di là dell’oceano2 .
I libri! Avercelo il tempo per leggerli. E per scriverli. Se ognuna di quelle che sta qui con me potesse scrivere un solo libro che parli della sua condizione di vita e di lavoro; e di come vive male con il “suo” uomo. O di quanto deve tribolare per scegliere liberamente se essere madre oppure no.
Se ognuna di noi potesse scrivere. Eppure, lo sappiamo fare tutte. Tutte abbiamo appreso a leggere e a scrivere da bambine. Ciononostante, come facciamo a raccontare le nostre storie? A conoscere le storie delle altre?
La sera la testa è troppo pesante dei pensieri della giornata, della doppia fatica di sempre : casa e lavoro. Da queste parti si dice “fare i mestieri”, ad indicare quando si mette in ordine la casa, si pulisce in terra, si lavano i panni, si fa la spesa, etc. etc. Già noi donne dobbiamo fare “i mestieri”, mentre ai signori di casa ne basta uno. E più lo fanno pesare più cambia nome: lavoro, professione, arte, impegno.
Loro prendono per il loro singolo mestiere molto di più di quanto non guadagniamo noi per i tanti mestieri cui siamo costrette. E qualche volta ci chiedono di guadagnare un po’ di meno e lavorare un po’ di più . Che sarà mai! Bastano poche rinunce : qualche giorno di ferie in meno, un permesso in meno. Ridurre un po’ la pausa pranzo. Magari appena di sette minuti3 .
Aisha ed Irene se ne sono andate via per qualche giorno. Sono andate giù, in Calabria. Hanno detto che portavano un fiore sulla spiaggia dove sono naufragate tante vite . Hanno detto che un fiore serve a poco alle tante e ai tanti che non ci sono più. Un fiore serve a noi, perché la sabbia di un naufragio, mescolata all’ipocrisia mielosa di chi comanda, può solo far peggiorare le ferite aperte della società umana.
Come mi chiamo? Poco importa il mio nome e quello di tutte le altre. Sono una delle tante, figlia della propria condizione, schiava dei propri bisogni, fiera della propria identità di persona. Il resto sono chiacchiere. Domani si ricomincia. O forse no! Si cambia.
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