La salute dietro le sbarre, intesa non solo come sanità pubblica della comunità penitenziaria ma anche benessere individuale del più emarginato tra i detenuti, è stata grandemente compromessa dopo i gravi fatti capitati al carcere minorile Cesare Beccaria di Milano. Violare il corpo e l'anima di quei ragazzi mentre scontano la loro pena, per quanto possano aver sbagliato secondo la legge quando stavano fuori, non ha attenuanti. Si apprende che uno di loro era riuscito a fuggire a Natale, è stato ripigliato come il peggior criminale evaso e ricondotto nel suo inferno. Pare una beffa che nella prigione per ragazzi, che porta il nome del grande giurista illuminato del Settecento, nonno di Alessandro Manzoni, si siano compiuti atti non occasionali di una brutalità inaudita che violentano la comune sensibilità pubblica ed offendono uno dei più celebri trattati di diritto penale, “Dei delitti e delle pene”.
Una brutta pagina anche per la professione infermieristica
Beccaria, che rifiutava la pena di morte ed aveva avversione della tortura, sosteneva che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso, bensì quello di prevenirne altri con la certezza e la proporzionalità della condanna.
Tutto il contrario di quanto avvenuto nel carcere che celebra il suo pensiero.
Se salute nelle carceri significa cura ancora più rigorosa delle persone che le abitano, attenzione per il loro benessere nonostante la privazione della libertà, nonché prevenzione, educazione, relazione per intervenire su bisogni complessi dettati dalla fragilità della condizione, allora non è stato fatto un buon lavoro al Beccaria.
Da quel dentro che separa chi sgarra dagli altri, escono ogni tanto delle storie. Trapelano notizie di detenuti morti in cella perché troppo vecchi o curati male, soccorsi tardivamente o condotti in ospedale per eseguire visite specialistiche dopo lunghe attese, talvolta si dice per mancanza di disponibilità da parte degli agenti di scorta, impiegati in altri servizi.
Quando poi qualcuno dietro le sbarre decide di farla finita, la sua morte diventa una sconfitta sia per la società che per il sistema, chiamato altresì a riabilitare mentre garantisce sicurezza e dignità nel periodo della carcerazione. Quando si scopre che laddove dovrebbe esserci la massima legalità ed umanità, vige invece un sistema basato su un metodo sistematico di violenza
, non si può non sapere, non vedere e non fare niente.
Perché bisogna aspettare che diventi una vicenda dolorosa e straziante se è già noto che il sistema è prassi ed alcuni secondini tendono ad avere il pestaggio facile? Che essere in pochi, sotto organico, o che l'ambiente lavorativo sia difficile e per sua natura violento, non possono essere scusanti.
Dalle indagini sugli abusi e i maltrattamenti commessi dagli agenti della polizia penitenziaria è emerso che soltanto il garante, una psicologa, un agente e una mamma non si sono voltati dall'altra parte e non hanno fatto finta di niente. Mi chiedo perché tra queste quattro persone che hanno abbattuto il muro di silenzio non ci sia almeno un infermiere. Del resto è una figura compresa nell'organico, anche se non dipendente del Ministero di Giustizia, che passa in carcere buona parte della sua giornata.
Mi aspettavo, scorrendo la cronaca nera che specificava chi avesse denunciato la condotta degli agenti, di trovarne almeno uno, tra il personale sanitario assegnato alla casa circondariale per la cura e la tutela psicofisica dei detenuti minorenni, che avesse avuto il coraggio di denunciare i misfatti. No, non c'è un infermiere tra coloro che hanno svelato le violenze permettendo così di avviare l'inchiesta, porre fine all'orrore, salvare le vittime da altre supplizi e far arrestare i responsabili.
Mi chiedo allora perplessa perché un infermiere non abbia segnalato alla direzione sanitaria un viso pestato a sangue, non abbia chiesto spiegazioni alla direzione del carcere, non abbia scritto una relazione di servizio e non abbia denunciato in Procura i pestaggi. Le torture non sono invisibili, lasciano segni sulla pelle e nell'anima anche se vengono commesse con la complicità della notte e delle persone.
Se non potevano essere presenti mentre si consumavano le violenze, dove stavano gli infermieri il giorno dopo, e quello dopo ancora, quando entravano in cella scortati dalla guardia per il giro della terapia? Dove stavano gli infermieri quando il detenuto doveva essere necessariamente condotto in ambulatorio medico per le cure del caso dopo le punizioni corporali che diventavano spedizioni da squadrone?
Forse non vedevano i segni dei calci in faccia, delle cinghiate sui genitali e delle violenze sessuali descritte dagli inquirenti? Se qualcosa fosse potuto, seppur stranamente, sfuggire ad un occhio clinico, non avrebbe dovuto a quello più umano. Dove stavano gli infermieri quando, come si evidenzia dalle indagini, il medico in servizio compiva un falso ideologico, redigendo un referto con zero giorni di prognosi al detenuto ridotto in stato di semi coscienza dopo un ultimo feroce pestaggio?
Non sentivano gli insulti razzisti, le umiliazioni, le vessazioni negli spazi comuni del carcere e lungo i corridoi? Possibile che nessun ragazzo lì dentro abbia mai chiesto aiuto ad un infermiere, persona che dovrebbe suscitare fiducia, confidandogli la sua angoscia?
È emerso che i ragazzi venivano minacciati di subire aggressioni peggiori se avessero denunciato. Anche se i pestaggi venivano compiuti cercando di non lasciare troppi segni evidenti e in zone della prigione senza videosorveglianza, è mai possibile che per due anni, dalla fine di marzo 2022 allo scorso marzo, nessun infermiere abbia intuito se non visto, di turno in turno, quel che stava capitando ad almeno dodici detenuti?
Forse la popolazione carceraria è troppo numerosa a fronte della carenza di personale per poter intercettare i drammi che vi si consumano? Forse che nessuno, nello svolgimento delle proprie attività assistenziali, abbia mai avuto occasione di avvicinare una delle vittime?
Se nessun infermiere ha colto la sofferenza fisica e il disagio mentale che questi ragazzi hanno vissuto negli ultimi due anni, c'è chiedersi quanto la paura di ritorsioni riesca a bloccare le coscienze a tal punto di diventare conniventi nella congiura del silenzio.
C'è da aver paura non soltanto del sistema giudiziario italiano, evidentemente non migliore di quello dei regimi se non vi è garantita e controllata la legalità, ma anche dell'omertà, dell'indifferenza e della perdita di umanità in coloro che lo Stato pone a guardia di altri cittadini con l'intenzione, assicura, non solo di custodirli fino a che abbiano scontato la pena ma anche di recuperarli per il reinserimento sociale.
Come possono uscire, se non devastate ed inclini a compiere ancora reati, persone che vengono trattate come feccia? C'è da aver paura se coloro che sono mandati all'interno delle carceri per prendersi cura della salute delle persone, affinché non perdano anche quella oltre la libertà, non abbiano a cuore responsabilmente anche la loro dignità e non facciano niente per porre fine agli oltraggi.
Sono venticinque gli indagati che hanno commesso abusi devastanti sui ragazzi, senza pietà, o ne erano a conoscenza. Ma sono molti di più i colpevoli, la maggior parte, perché hanno semplicemente taciuto. Il pubblico ministero ha rilevato pesanti omissioni sulle torture da parte di alcune figure apicali del carcere, che hanno consapevolmente agevolato e rafforzato le determinazioni criminose dei sottoposti
.
Pertanto il Gip ritiene che nessuno nell'istituto sia davvero innocente. È una brutta pagina per le istituzioni
, ha dichiarato il procuratore di Milano. Una pagina triste
, fa sapere il cappellano. Se tra l'elenco di chi ha parlato non c'è davvero neanche un infermiere, né quello più anziano di servizio né l'ultimo arrivato pieno di buone intenzioni, allora è una brutta pagina anche per la professione infermieristica. Al momento, nel corso degli accertamenti sulle responsabilità dei fatti, soltanto quattro persone, sino a prova contraria, sono innocenti. Un agente, una mamma, un garante, una psicologa.
Le pene inflitte a questi ragazzi sono andate ben oltre la condanna per delitti e reati commessi. I giornali si interrogano su come si sia potuti arrivare a tanto orrore. Il cappellano ritiene che una cosa del genere fosse impensabile. Forse l'impensabile avviene quando si trascura il fatto che ogni sistema, anche quello carcerario, è fatto di persone, alcune con cuore ed altre no.
L'impensabile avviene probabilmente da tempo, non soltanto al Beccaria. Magari i fatti più vili, che non possono essere tenuti nascosti a lungo, vengono descritti come casi isolati ed estremi. Certamente non sono mai solo voci quando qualcosa esce dal carcere, è un indizio che andrebbe indagato per scoprire gli abissi più profondi di cui gli uomini si possono macchiare. Sebbene chi lavora dentro sia tenuto al segreto professionale, ciò non significa tacere l'infamia fuori.
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