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Testimonianze

Infermieri, è tempo di rallentare

di Redazione

Rallentate, prendetevi il vostro tempo. Forse una cura del riposo è esattamente ciò di cui avete bisogno. È il consiglio che un medico americano, Suzanna Koven, rivolge di cuore ad ogni professionista della salute. In una testimonianza, pubblicata su The Lancet nell'articolo di medicina narrativa “A matter of time”, racconta di aver acquisito purtroppo soltanto a fine carriera questa sana consapevolezza.

È tutto una questione di tempo

infermiera

Rallentate, prendetevi il vostro tempo. Forse una cura del riposo è esattamente ciò di cui avete bisogno

È tutta una questione di tempo, non solo al lavoro che diventa sempre più frenetico, ma anche nella vita privata.

Alla luce della sua esperienza esorta gli operatori sanitari a rivedere il tempo necessario per fornire assistenza ai pazienti allo scopo di tutelare non solo la sicurezza delle cure, ma anche la qualità del proprio tempo di lavoro, a beneficio di quello di vita, proteggendo la propria salute fisica e mentale.

Ed esorta a fermarsi se il corpo ci chiede di farlo, mandando segnali, non come ha fatto lei per tanto tempo.

Che ha preso l'antinfiammatorio, come prescritto dal medico di pronto soccorso dove allarmata si era rivolta tanto stava male, per farsi passare il peggior mal di testa della sua vita ma ha ignorato di prendersi un giorno di ferie dal lavoro.

Questo è il tipo di spavento che ti fa fermare e annusare le rose, vero? le aveva detto un'amica non sanitaria in seguito a questo primo episodio di forte stress. Pur dandole ragione, non si era fermata affatto. Negli anni, presa com'era dal lavoro in ospedale, aveva smesso di notarsi e faceva sempre meno caso ai dettagli della vita che si svolgeva fuori.

Lavorando in giornate senza sole che si confondevano in notti infinite, con la mia vita divisa in turni di mesi anziché stagioni, mi sono disconnessa dal tempo così come esiste in natura - scrive l'autrice dell'articolo -. Non mi sono resa conto di quanto fosse cambiato il mio senso del tempo.

Fino a quando ha la sensazione di essersi trasferita in un altro pianeta, quando per caso al mercato del quartiere in cui vive una donna chiede semplicemente al contadino: Cosa c'è fuori questa settimana?, riferendosi agli ortaggi e alla frutta di stagione. Racconta di aver riacquistato un poco, impegnandosi a farci caso, il senso delle stagioni negli anni in cui aveva i figli piccoli, ma ancora ha trascorso meno tempo come medico-madre a saltare nelle pozzanghere che a correre.

Era in ritardo in clinica ed era in ritardo per andare a prendere i bambini. Pur andando sempre di fretta, il tempo non le bastava mai. Ho misurato il mio tempo al lavoro in incrementi sempre più piccoli man mano che il numero di minuti assegnati a paziente diminuiva e le attività amministrative aumentavano. Quando ero in ritardo e portavo a casa la documentazione, mi incolpavo per la mia cattiva gestione del tempo. Non sono stata dissuasa dall'autobiasimarmi dalla crescente assurdità del mio lavoro, un'assurdità evidenziata da uno studio pubblicato l'anno scorso che mostrava che per fare tutto ciò che ci si aspetta da un medico di base negli Stati Uniti egli dovrebbe lavorare 27 ore al giorno, racconta.

Qualche decennio dopo, un infortunio alla spalla a causa di una caduta accidentale mentre correva al lavoro la costringe a restare a casa. Le ci vogliono mesi per guarire. Si sentiva reclusa. Non combattere, guarda solo l'erba crescere, l'ammonisce una conoscente suggerendole di non fare niente.

Così per la prima volta si è permessa di fare qualcosa che aveva fatto raramente sin dall'infanzia. Niente. Quando è tornata al lavoro dopo mesi di niente, si sentiva calma, come se avesse passato l'estate in ritiro. Per un breve periodo questa strana calma le è rimasta dentro, anche perché l'infermiera della medicina del lavoro le aveva ordinato di lavorare, temporaneamente, a metà della sua solita velocità.

Racconta che in questo ritmo insolito, dove le visite duravano trenta minuti anziché quindici o addirittura mezzo pomeriggio, scopriva di ascoltare più attentamente i suoi pazienti ordinando loro meno esami e visite specialistiche, come era solita invece fare prima per sbrigare velocemente la visita.

Inoltre, si sentiva meno ansiosa. Mi era sempre piaciuto il mio lavoro di medico, ma trovavo questa versione rilassata molto beata. Questa beatitudine durò poco. Ripiombò presto nella vecchia routine, per tanti altri anni. Sino a 4 giorni prima di ritirarsi dall'attività, quando ebbe un altro infortunio cadendo dalle scale procurandosi una frattura al polso.

Il mio fattore di rischio per le fratture è la fretta, spiega. È durante questa seconda lunga convalescenza che la dottoressa ritorna a notare i dettagli, la natura, le semplici cose della vita. Allontanata dal lavoro e dal mondo non per forza ma per ferita, reclusa in casa, senza stimoli intellettuali e attività ricreative, con una buona dieta alimentare, mi sono finalmente riposata. Non sono impazzita, sono guarita dalla frenesia di una vita.

La sua riflessione, rivolta soprattutto ai colleghi medici, è perfetta anche per gli infermieri che negli ultimi decenni lavorano altrettanto sempre più velocemente, spinti dalla carenza di personale, dalle esigenze dell'organizzazione aziendale, dall'economia dell'assistenza sanitaria, dagli obblighi della cartella clinica elettronica nonché dai progressi negli approcci diagnostici e terapeutici.

Come spiega la dottoressa Koven, nel lavoro in sanità tutto è diventato più accurato ma anche più difficile, perché il tempo necessario per esercitare bene la professione medica (e infermieristica) e il ritmo con cui la maggior parte dei pazienti guarisce non sono aumentati di molto.

L'autrice spiega che è vero che i pazienti vengono generalmente dimessi dall'ospedale molto più rapidamente rispetto al passato, tuttavia, la brevità dei ricoveri ospedalieri se da un lato avvantaggia il paziente dall'altro fa perdere di vista, anche agli operatori sanitari, il fatto che corpi e menti feriti possono ancora richiedere settimane, mesi e persino anni per guarire.

Allo stesso modo Koven spiega che la durata più breve delle visite cliniche non ha comunque ridotto il numero di cose che pazienti e medici devono dirsi a vicenda. Perché continua ad interrompermi?, pensa il paziente. Perché fa così tante domande?, pensa il medico. E si sente fastidio l'un l'altro.

È la fretta nella relazione di cura ad incrinare il rapporto. Sono i limiti di tempo che fanno sentire frustrati sia il sanitario che il paziente e a metterli l'uno contro l'altro, indispettiti. Spiega, inoltre, che la velocità con cui svolgiamo le attività assistenziali ci lascia sempre meno opportunità di riflettere sulle questioni emotivamente ed eticamente complesse che emergono nel lavoro di cura.

Le storie di vita che raccogliamo e viviamo nelle storie cliniche, al capezzale di un letto, non trovano più spazio per essere davvero accolte e capite. Siamo sempre talmente alacri ed efficienti nel lavoro che tendiamo poi ad essere altrettanto veloci ed iperattivi anche nella vita personale. Tutto questo fa ammalare e fa perdere il senso di ogni cosa.

È tempo quindi di rallentare. Considerando che sia per i professionisti sanitari che per i pazienti il tempo è la miglior medicina, dobbiamo imparare allora a concederci una cura del riposo ogni tanto sinché rallentare diventerà naturale. Nel frattempo, io penso che leggerò filosofia alla mensa dell'ospedale. Seneca e Marco Aurelio possono essere un buon inizio.

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